Giornata mondiale della Vita

Vita=Libertà, Libertà=Vita,  e dunque dove non c’è libertà non c’è vita libera,  e dove non c’è vita libera  non c’è vita vera.

Così  devono avere pensato questi personaggi presi ad esempio, filosofi, fotografi, musicisti, pittori, scienziati, poeti, uomini di preghiera, uomini semplici, perfetti sconosciuti, scrittori, politici, o altro ancora…

Una girandola da fare girare la testa… meglio scegliere come propria  una sola figura, quella che più sentiamo vicina o fondamentale… magari proprio quella che non troviamo scritta,   perchè possiamo scriverla o disegnarla o raccontarla vivendo …  solo noi stessi…

la vita, la pace, la luce

dopo il buio…

dopo tanta morte, solo vita

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amare significa

stare con la persona che è tutto per noi

vedere le cose con gli occhi giusti

sapere che l’essenziale è stato fatto

avere parole anche senza bisogno di parlare

conoscere la tranquillità di chi sente il suo cuore

arroccato come una roccia

una magnifica roccia

che si alza al cielo

come una cattedrale di luce

 

non siete d’accordo?

 

5terre

giusto per ricordare che…

la rete è uno strumento e non il mondo

Vivi la tua vita oltre la rete   🙂  amico !

ribloggato da  Diapason

la musica nel cuore

 

La morte inutile e la bella morte

Sopravvissuti all'Olocausto: 7 maggio 1945, l'ottantottesima divisione della Terza Armata dell'esercito statunitense Entra nel lager di Ebensee in Austria.  (Credits: Bettmann

Noi tutti viviamo  con delle aspettative.

Abbiamo attese da quello che facciamo per gli altri, da quello che impieghiamo  nel nostro lavoro, dagli amici  con cui confidiamo le nostre cose più care, dalla persona per la quale ci dichiariamo  impegnati, ma ancora,  da quello che gli altri dovrebbero fare per noi, per il ruolo che ricoprono, per l’impegno che si sono assunti nei nostri riguardi.

Così che le aspettative o si deludono, o vengono deluse.

Sempre che invece non vengano soddisfatte.

Quando vengono soddisfatte,  va tutto bene, quasi non ci accorgiamo del beneficio ricevuto, che viene dato per scontato.

Quando vengono disattese, invece subiamo una mancanza.

Questa mancanza è tanto più grave e infelice,   più è seria  e a volte gigantesca  nella sua portata.

Nascono così le disattenzioni storiche.

La Shoah, è la più nota e sconcertante tragedia nel nostro mondo occidentale.

Potremmo a questa aggiungere una lunga lista di genocidi e squallori mondiali, ma questa è per me il simbolo innominabile  che tutte   le rappresenta.

Mai essa potrà essere dimenticata e taciuta, perchè è quello che ogni giorno il mondo rischia di potere ripetere, per non dire che di fatto questo si ripete, si è ripetuto e si ripeterà, anche se sotto silenzio.

Dietro, sotto, disperse e frastagliate, impercettibili e quasi invisibili, giacenti  nei lembi del tempo e dello spazio  ci sono le migliaia di disattenzioni personali e sconosciute.

Esse non sono meno serie e meno importanti di quelle storiche, per chi le ha subite e le sta subendo.

Stanno dentro la sfera privata, ma palpitano di fuoco e di cenere come se fossero vulcani ardenti e crateri pronti ad eruttare.

Le aspettative disattese possono essere eventualmente fatte rivalere sotto un profilo legale, se lo si  ritiene necessario.

Anche se l’avventura di un iter legale è oltremodo costosa, faticosa e incerta.

Il più delle  volte è meglio lasciar perdere.

Un’aspettativa sfiorita può essere piuttosto e meglio combattuta  con un rilancio,  con una seconda rinnovata promessa/scommessa   di rivincita.

Quando una disattenzione da parte di chi avrebbe dovuto fare nei nostri confronti qualcosa che invece non è stato capace di fare,  lascia segni continuativi e circostanziati,  non è semplicissimo uscire dallo stato di sfiducia e di disincanto che veniamo a subire.

E’ pur vero che maggiore è l’entità  dello scampato pericolo, o del danno superato, e maggiore è la personale motivazione a volere riprendere quel filo che l’imprevisto o l’avverso   destino  ci hanno fatto ingarbugliare.

Fuori dal garbuglio, dunque.

Fuori dalle pene, dallo sconforto, dai ripensamenti continui.

Il  passato accaduto non può essere cancellato, però può essere ripreso, sottolineato, metabolizzato, fatto osservare, fatto comprendere,  e infine superato.

Quante fatiche si possono vincere   nel giro di un tempo piuttosto breve?

Non molte, se le fatiche sono molto faticose.

Pensare che la fortuna è una ruota che gira e che  quello che oggi è toccato a noi di subire, forse domani potrà capitare a chi questo stesso disagio ci ha causato, non è un pensiero poi del tutto ingiusto, anzi, può essere persino terapeutico.

Se la giustizia , si sa,  ha tempi molto lunghi  e lenti,  l’ìmpulso alla ripresa, alla vita, alla gioia, alla propria soddisfazione immediata è assai più veloce e irrefrenabile.

Si abbandonino dunque i cattivi pensieri per andare incontro  con  rinnovata fiducia a chi e a cosa sappiamo essere i nostri punti saldi di riferimento.

Perché un conto è subire una delusione da chi sappiamo essere per noi insostituibile,  e un conto è subirla  da chi  ci rimane in un certo senso un estraneo o una persona facilmente sostituibile.

Per quanto possa essere grande il dolore  o il rischio  subito, per quanto possa essere grande  l’ingiustizia patita,  di fronte ad una eclatante ripresa   non bisogna esitare ad abbandonare ogni genere di tristezza.

Quanti uomini e donne subiscono ogni giorno di pari passo oltraggi terribili pagandoli con la vita?

Lo so.

Nella globalizzazione dell’indifferenza, come recentemente è stato definito da Papa Francesco il nostro terribile tempo,   è difficile per noi uomini e donne normali,  comprendere  lo scandalo  della morte inutile.

Sì, amici cari,  alla fine si tratta di parlare proprio di questo..

Ma la morte può essere utile?

Penso di sì; ci sono morti utili.

Sono  morti utili quelli che  muoiono  senza avere meritato il dono della vita,  o che muoiono per salvare la vita di un altro.

Morire  solo perché  nessuno si ferma a soccorrerci,  o solo perché qualcuno commette uno sbaglio, o solo perché qualcuno ci uccide, o solo perché  ci troviamo nel posto sbagliato nel momento sbagliato,  non è fare una morte utile.

Vorrei che tutti potessimo avere una dipartita  comprensibile, accettabile.

Parlare  della fine  non è essere pessimisti o distruttivi. Ogni fine è l’inizio di qualcosa di nuovo. Ogni inizio è qualcosa che arriverà alla sua fine cioè alla sua evoluzione in qualcos’altro.

Di sicuro   non vorrei però essere nei panni di colei o di colui che si rende la causa, anche solo accidentale, della fine di un’altra persona.

E poi,  amici cari, occorre fare anche una bella morte  (e non solo una bella vita)

Scusate se è poco.

Piango tutte le fini tragiche  che non hanno avuto ancora  giustizia, di un pianto non effimero ma sincero, vero, sentito, partecipato, ma poi  l’istinto della vita, della rinascita, del bello che sta dentro e fuori di noi,  mi fa uscire, non so per quale miracolo, dall’incomprensione del dolore senza perchè.

Scrivo perché sono viva…

Scrivo perché sono viva

e perché le parole sono come

le case

fatte di

grosse pietre pesanti

che costruiscono muri invalicabili

a protezione  di persone che sono gli unici beni preziosi

che non possono essere sostituiti.

Scrivo  perché sono vera

e non posso immaginare parole narrate

che non abbiano un senso preciso

e diretto alla vita

ed alle faccende del mondo.

Scrivo per abbellire la solitudine

e per dare ad essa un contenuto,

un ricamo dentro il quale mettere

tutto il saputo  oltre il silenzio.

Scrivo per  conoscermi e conoscere

perché  attraverso le parole non taciute

svelo i misteri misteriosi e innominati

e nascono canti sinuosi e suadenti

filastrocche bislacche e improvvisate

menestrelli cantanti e ballerini

burattini che diventan di carne come Pinocchi

cresciuti  e rinati.

Scrivo  per donare il pensiero

per condividere,

per chiedere denunciare interrogare

capire svelare creare

pungolare smuovere premere

correggere immaginare e permettere.

Scrivo perché  qualcuno mi legga

o perché qualcuno mi legge

e perché io possa leggere quello che altri   mi possono raccontare…

Povero,sporco,puzzolente…

    

Illecito fotografare mendicanti e persone disagiate

diseredato, ammazzato, perseguitato, sconosciuto, straniero, diverso…

Eppure è l’inizio della  vita.

E ci è piaciuto  metterlo dentro  un presepe, con tante luci, e brava gente, e sapori familiari, che ci ricordino  casa nostra, quando siamo da soli,  ed anche quando siamo in compagnia.

Lui un neonato pulito e profumato, che verrà fatto diventare  un volgare  carcerato  tra ladroni.

Ladroni, miserabili, galeotti, o solo poveri, accolti per un giorno presso qualche tavola.

Intoccabili, potenti, signori del mondo,  ma molto più sporchi dei pezzenti maleodoranti.

Famiglie che reclamano la loro terra, dopo un innominabile dolore, e famiglie che difendono le loro case, nel nome della stessa possibile  tragedia.

E  poi ancora famiglie normali, quotidiane, come le nostre, come noi stessi.

Ecco il Natale.

e un albero è sempre un urlo di gioia…

Alberi

 

 

 

 

Giovani all’assalto

 

 

 

Amo la giovinezza   e quello che rappresenta.

L’amo   non come condizione fisica e psicologica  ma come condizione spirituale.

Chi rimane giovane nonostante il passare degli anni,  rimane vivo, non nel senso che bisogna continuare ad avere vent’anni (sarebbe impossibile e neanche troppo interessante) ma nel senso  che la gioventù  è qualcosa che appartiene al cervello e non alla condizione fisica che inevitabilmente  “Invecchia”.

Non mi stancherò mai di ripeterlo.

La stessa giovinezza come pura  condizione anagrafica  non è nemmeno di per sè  particolarmente  convincente.  Da giovane  manca l’esperienza, manca  la maturità,  manca  il senso completo  dell’esistenza, tutte  doti che solo il tempo permette d’acquisire.

La vera virtù  di quest’età  è  il perfetto funzionamento  del corpo;  si è nelle migliori condizioni  per fare sport, per sopportare fatiche particolarmente impegnative,  per sottoporsi a  prove  che richiedono una lunga  resistenza.

Direi anche per fare figli,  quantomeno  dal punto di vista biologico.

La tendenza  ormai  condivisa di scegliere maternità e paternità anta  negli anni,  è un fenomeno moderno  che consegue sostanzialmente  allo sviluppo della medicina e quindi della scienza in senso lato.

Prima le maternità/paternità  si subivano, in parte in pesi differenti;  oggi  si programmano  e quindi  si è divenuti sempre più protagonisti anche in questo senso. Lo dimostrano alla grande il proliferare di coppie gay che scelgono di mettere su famiglia.

Di questa capacità programmatrice   se ne avvantaggia prioritariamente  il genitore, in secondo luogo in parte  anche   il figlio.

Tornassi indietro, rifarei la mia maternità  nell’età giovane che ho scelto,  ma  vorrei potere tornare madre con la testa di oggi, con il cuore di oggi, per dar quel valore aggiunto che mi è mancato a suo tempo.

Lo sviluppo psichico di una persona  è  qualcosa che   assolutamente supera il mutare delle condizioni fisiche.

Si può infatti fisicamente mutare assai  poco,   ma diventare con gli anni  assolutamente diversi  sotto un profilo interiore.

Lorenzo e  Olivia  del romanzo    IO e TE  sono rispettivamente un adolescente e una giovanissima  donna.

Della loro giovinezza  non conoscono nulla o assai poco;  ne sono assolutamente inconsapevoli.

Guardano agli adulti come se fossero dei vecchi,  probabilmente perché gli adulti  di cui si trovano circondati sono vecchi, vecchi nello spirito.

La loro reciproca condizione è rispettivamente agli opposti; Lorenzo  vorrebbe  essere già grande,  venire ritenuto già tale, ha fretta di crescere,  ma solo alle proprie condizioni; Olivia  vorrebbe  togliersi di dosso l’abito che si è trovata a portare a causa della sua stessa  giovinezza, che nel suo caso specifico non le ha portato altro che guai e dispiaceri.

Lorenzo  vorrebbe proteggersi dai grandi, di cui diffida, e non trova interessanti i suoi coetanei che sono estremamente meno “grandi” di lui, meno arguti, meno  curiosi.

Olivia  vorrebbe  trovare  un compagno   che sappia offrirle   una proposta di vera vita.

Una casa in campagna, dei cavalli, la pace della natura, delle abitudini solide e precise…

Entrambi sono stati scottati dalla separazione dei propri genitori.

Per Olivia un padre che lascia la moglie per un’altra donna; per  Lorenzo una madre  che   non gli dà fiducia, che gli sta troppo addosso,  che non gli lascia libertà.

I due fratelli per un certo periodo di tempo imparano a conoscersi, ma solo quando si  troveranno riuniti  dentro  il silenzio e l’assoluto vuoto  di una cantina, scopriranno  e si riveleranno reciprocamente  i propri pensieri.

Solo quando staranno l’uno davanti all’altro,  senza più la presenza fuorviante e condizionante dell’adulto, inteso come sinonimo di rigidità, di menzogna, di immobilità e  di  diffidenza, riusciranno ad aprirsi, ad essere se stessi.

In questo senso amo la giovinezza, in quanto immediata e spontanea espressione di apertura, di accoglienza e di  possibilismo.

Ci sono giovani, e tornerò sempre a ripeterlo,  già vecchi e mai stati tali,  così come ci sono adulti  che diventano giovani invecchiando. E’ tutta una questione di  far coincidere e quindi conciliare  le linee del tempo con le linee dei sentimenti e le azioni con le intenzioni.

Intendere e dunque agire di conseguenza è una prerogativa adulta, che esprime raziocinio e controllo; sentire e dunque permettere  è una prerogativa  giovane, che profuma di  rinnovamento.

Il coincidere di queste due realtà, fa essere la perfezione.

La perfezione viene raggiunta dopo un periodo indefinito e sconcertante  di tentativi e di prove, nonché di sbagli.

Gli sbagli  possono avere origine o nelle nostre stesse incapacità o nelle incapacità e mancanze altrui; spesso queste incapacità convivono, ma bisogna comprendere l’ordine  in cui esse si susseguono e si determinano. Bisogna comprenderne l’ordine per potere rimediare e per sapere a chi dobbiamo andare a chiedere spiegazioni.

La stessa perfezione che si riesce a raggiungere  dopo infinita fatica,  non è un traguardo fisso e immobile.

Rimane   essa stessa sottoposta  alla legge del mutamento e del rinnovamento, oltre che della ripetuta fedeltà a qualcosa  che si è deciso di fare proprio.

Vivere la vita è il gioco più  entusiasmante e rischioso  che un buon giocatore potrebbe decidere di intraprendere.

Dunque viviamola  sempre, qualunque cosa ci possa nel frattempo succedere.

Nel nome della giovinezza che non deve venire uccisa, che deve trovarsi, riconoscersi e sbocciare, in qualunque momento questo possa divenire possibile.

NEL SILENZIO VIGOROSO DELLA SERA

 

 

 

 

 

 

 

Gli  uomini sono come gli alberi; nascono, crescono e muoiono; servono al prossimo; possono essere spettacolari o piccoli e insignificanti; per lo più si riproducono attraverso il  proprio ciclo vitale; quando tagliamo  un grande tronco con  le sue fronde vive e rigogliose  ci può sembrare  di  commettere un vero delitto, come uccidessimo o lesionassimo una parte di una  persona;  loro sono muti, ma solo per chi non sa ascoltare  i suoi suoni tra le foglie; loro  sono immobili,  ma viaggiano con noi che li portiamo per il mondo nei nostri pensieri; alcuni sono così belli e maestosi, da farci ammutolire, e nell’ammutolirci,  ci commuoviamo,  come quando noi ci innamoriamo, o mettiamo al  mondo  un figlio,  o scopriamo d’avere ricevuto un gesto d’affetto speciale;   come noi   sono mutanti nel seguire il corso delle stagioni,  ma non perdono mai quel qualcosa che li fa  essere sempre se medesimi  nel corso infinito   del tempo.

 

Tutto quello che accade di buono  ad  un albero,   accade   per amore, sempre e solo per  un atto d’amore, così come deve essere  per noi  che  respiriamo il loro ossigeno  ed osserviamo il cielo cullarci nel silenzio   vigoroso  della sera…

La vita è un gesto di risoluzione; ognuno deve arrivare irremovibilmente  a compiere il proprio.

Tempo, cuore, mente

Solo ora

che ho costruito

la mia libertà

posso  viverla

ed  insegnarla

agli altri

Solo ora

che  posso  scegliere

 la conoscenza

posso conoscere

e fare conoscere

Solo ora

che afferro

la vita

posso vivere

e far vivere

e questo

può accadere

nella vita di un uomo

solo quando è il suo tempo

Tempo tempo tempo

cuore cuore cuore

mente mente mente

tre fratelli

in un solo spirito

All’uomo sta solo

di lasciarli  essere

nell’ora che arriva

Un mondo ordinato

 

Amici  carissimi, se mi dovessero chiedere ad oggi qual è il periodo  della mia vita  che io ricordo con più nostalgia, risponderei senza esitare: “la mia infanzia”

Non solo perché quando si è bambini è tutto così speciale e magico,  non solo perché  da bambini si guarda il mondo  con occhi    che poi  dimentichiamo,  ma perché da bambino  io sono  stato decisamente felice.

La  mia felicità  si chiamava  “Casoni”  che era il nome della contrada  montanara  in cui io e la nostra   numerosa  famiglia   parentale ci si trovava  per il periodo  dell’estate, finita la scuola…

Dire montanara  è un po’ eccessivo;  700 metri d’altezza  sono più collina che montagna,  sono quasi ancora campagna,  ma l’aria è più buona,  non c’è mai la nebbia  se non pochi giorni l’anno,  quando  le piogge continue di più giorni fanno alzare dal terreno il calore  del suolo  ed allora si forma  lo scontro  tra la terra  calda e l’aria fredda della valle…

La  mia felicità si chiamava nonna Giuseppina,   una vecchietta che il tempo  arido ed  ingrato  avevano trasformato in un piccolo ammasso  di curve, di rughe e di gobbe…la nonna  stravedeva  per me,  ero il suo pupillo;  io avevo il privilegio   di dormire nel suo lettone,  io avevo il privilegio di vederla e sentirla recitare il rosario da sotto le coperte la sera, prima della lunga veglia notturna, io avevo il privilegio  di  seguirla nell’aia  dietro le galline  mentre lei le rincorreva    e le chiamava  alla mensa…

La  mia felicità  si chiamava correre nell’orto a raccogliere le carote,  andare alla pozza  a prendere l’acqua fresca per il pranzo, stare con i miei cugini sotto l’ombra del grande ciliegio, giocare a cucco la sera  con i ragazzi più grandi  che   non si  facevano mai  trovare   ed alla fine vincevano sempre…perché baravano…

Ricordo la luna, la grande  luce bianca  della  luna  nella frescura delle sere di luglio,  ricordo il canto dei grilli  mai stanchi di   richiamarsi   nell’aria, ricordo i tramonti dalla collina del monte rosso, ricordo  le vacche  che  passavano  con i loro campanacci  da sotto le finestre  delle stanze della casa, la nostra casa, il nostro mondo;  ricordo  il sole,  il grano, il raccolto e la trebbiatura,  ricordo  le grandi feste  domenicali intorno ad una bella crescentina  calda  condita con un po’ di  formaggio e salame…

Quanti ricordi  assordanti che non si vogliono spegnere e che credo, non si spegneranno mai…

Oggi  vorrei potere   sostituire  quel periodo  lontano  e finito  con una felicità nuova,  tutta fresca  e rinnovata,  perché non ha senso   che una volta diventati adulti, dopo avere vissuto un’intera vita,  si abbia  a   scoprire  di dovere mettere questa parola  così importante tra quelle  desuete.

Certo, da bambini  abbiamo una contentezza   inconsapevole,  da adulti  la  nostra ricerca del sole,  dello stare bene nel mondo e con il mondo,   diventa   consapevole, metodica, puntigliosa, quasi  scientifica, per non dire di capitale importanza.

Di tutto si può fare a meno  tranne che della felicità. Lo sanno i medici, lo sanno gli analfabeti, lo sanno a nord  del pianeta come nel profondo sud, lo sanno tutti,  eppure  socialmente parlando  tanto non si fa nulla  per  insegnarla,  per trasmetterla,  per coltivarla  come  garantito  patrimonio   dell’umanità.

Io mi sento un ricercatore  che sta dentro il suo laboratorio  tra tante ampolle  effervescenti  e colorate;  c’è quella che  rumoreggia, c’è quella  che scoppietta, quella rossa, quella verde, quella gialla, quella grossa, quella stretta, quella con il collo a imbuto;     io con grande maestria e curiosità   le mescolo, le doso, le registro, le osservo, le pondero, le catalogo, se fossero viventi nel senso di organiche  le sezionerei…e poi  traggo le mie valutazioni.

Vi è mai capitato  di  scoprire  che quello che cercavate lontano lo avevate vicino?

Vi è mai capitato di concludere che quello che avevate fatto  con tanto convincimento e fatica e costanza e senso del dovere, alla fine si rivela quasi un estraneo  che vi guarda  dall’alto verso il basso  e vi chiede:  “Ma tu chi sei?  Ma  tu che vuoi?…”

Vi è mai capitato  di rendervi conto di avere buttato via un sacco di tempo in un’attesa che pensavate fruttifera  e lusinghiera,  tanto di quel tempo  che   un giorno vi svegliate  sudati nel letto nel pieno della notte, e vi trovate a chiedervi: “Ma io che ci faccio qui, dove sono i miei amici? Dove  ho lasciato il ricordo  del mio ultimo sorriso? Dov’è la luna? Dove sono finiti i grilli  che cantavano???”

Come un fantasma, un’entità  mai vissuta,      vi trascinate  nel  centro della  stanza, alzate lo sguardo al cielo  in cerca della luna, fino a che la trovate, là,  spiattellata  nel centro del firmamento,  che vi guarda bonaria  e vi  sorride dicendo: “ Amico mio, io stavo qui,  sono sempre stata qui,  per te che oggi hai deciso  di acchiapparmi, e per chi lo farà domani, e per  chi l’ha già fatto e non è più tornato indietro…”

Voi vorreste rispondere che  non stavate dormendo,  che stavate solo cercando, che avete atteso tutta la vita quell’incontro e che finalmente  non avete  più lacrime da versare…

Io voglio la luna,  eccome se la voglio;  la voglio a tal punto che non ho più nemmeno  bisogno  di  spiegarmi il perché  della vita, della morte, del dolore, delle scelte…tutto è ormai superato,  con una veste leggera  sei già fuori della stanza  confuso   con le pareti   del cielo,  non fa più freddo, anche se piove o tira vento o avanza  l’inverno…

Quello che era prima abbandono e solitudine oggi è una strada piena di gente; quello che era prima  noia mortale  oggi  è  una ghirlanda colorata che promette ogni genere  di  sorprese; quello  che prima  era confusione  e smarrimento  oggi  è chiarità assoluta,  volontà cristallina di fare, di saltare in groppa alla    stella più  bella che c’è…

Mio Dio,  come ho potuto stare tutto questo tempo  senza la tua  bellezza,  o  mia felicità?

Come ho potuto  soffocare i singhiozzi  perché  non  fossero sentiti  per così lungo tempo???

Perché,  dolcissimo  Gesù,  hai voluto questo da me?   Come hai  potuto   lasciarmi solo   nel grande pozzo  mentre che il mondo correva, rideva, si divertiva, schiamazzava, indifferente ed ignaro  di chi  non ha gambe per camminare, bocca per ridere,  possibilità  di incontro    alcuno….?

Ci si potrebbe chiedere come è possibile che nell’era del tutto concesso,  nell’era del web  che ci ha portato il mondo in casa e le case nel mondo,  ci siano vite prestigiose  e preziose   a cui non viene concesso nulla perché mai nulla è stato concesso, se non di illudersi  per una breve stagione,   se non di respirare l’aria che viene selezionata per loro, o di pronunciare parole  che possano stare bene con le parole di chi ascolta,  o  di  progettare cose  che siano null’altro che il riflesso  di cose di altri…

Non importa, non importa più nulla,  quello che è stato è stato. Oggi è morto e sepolto.

Da ora,  si abita  un mondo finalmente   ordinato.