l’opera di Dio, l’uomo libero

c.L’opera di Dio, l’uomo libero

(il problema della libertà, la vita e la morte,  i dogmi di fede,  cristianesimo islamismo ed  ebraismo si intrecciano)

 

La scelta della morte spetta a Dio; la scelta della vita come progetto divino spetta all’uomo; la scelta della morte gestita da Dio è la garanzia che la morte non è cattiva, non è irrimediabile, non è “la cosa” che fa del mondo il baratro che sembra essere; l’uomo dà la morte, o se la procura, ma questo non è morire, è solo fare o farsi del male. Solo la morte  data dal  caso  è buona, nel senso che Dio sa quello che fa e occorre che sia un evento che Dio accoglie presso di sé,  ma  è anche uno dei misteri più terribili  della vita umana perché ci chiama a problematiche di difficile se non impossibile  soluzione. Dubitare dell’esistenza di un creatore del mondo  non è che dubitare  della possibilità di vedere il mondo un giorno risollevato dalla morte e riscattato grazie alla risurrezione; non è che il dramma  di non sapere riconoscere la verità quando essa ci passa davanti e viene scambiata per menzogna; non è che il dramma di non accettare la propria fallibilità come una realtà non funesta, ma positiva, in quanto fino a che si sarà  fallibili, ma  prima ancora liberi e amati , si potrà essere anche salvi; se fossimo stati solo fallibili,  allora  al male non ci sarebbe stato rimedio, e non saremmo potuti non essere fallibili, perché Dio non poteva clonare se stesso senza con questo negarsi.  Ci ha provato Satana, a clonarlo,  ed è diventato Satana. E’ possibile dire di  no al male; basta dirlo; chi ha fatto l’uomo, ha pensato anche all’uomo e a quello che faceva; bisogna avere fiducia  e lasciarsi andare alla voce del Padre che chiama, purché sia il Padre a chiamare e non un suo pseudonimo.

Non si può affermare di credere nel cristianesimo e poi pensare che comunque “forse” non ci sarà la risurrezione o che per la risurrezione c’è tempo a parlarne,  tanto chissà quando verrà, se mai verrà; la risurrezione potrà  arrivare tra mille anni ma si verrà giudicati per quel più o meno breve istante di vita vissuta; o si è in tutto cristiani, o non lo si è per nulla; o si sceglie d’essere innamorati di Dio o si fa solo chiacchiere. Lo insegna Paolo che consegna ai primi fedeli la fede nella certezza assoluta del Cristo risorto. Un conto è l’attimo di smarrimento, ammesso e concesso, che fanno del cristiano di oggi come di quello di ieri  un uomo come tutti gli altri;  un conto è la figura di Cristo o la figura di Dio, o la figura dello Spirito che fin dall’inizio sono messe  in dubbio come se fossero opinabili o retoriche  e non piuttosto le fiamme alimentatrici della sola possibilità d’amore tra gli uomini, facendo del cristiano un uomo peggiore degli altri.

Sì, l’uomo è l’essere degli errori, dei ripensamenti, delle paure, delle incertezze, delle contraddizioni, delle debolezze, ossia della libertà,  ma è anche l’essere delle grandi decisioni, delle scelte, dei gesti coraggiosi, degli atti eroici, o molto più banalmente dell’umiltà, della modestia, della consapevolezza, della tenacia, della perseveranza, della capacità di resistere e di sacrificarsi.

Quando si parla di importanza della dottrina di fede  non si deve intendere il dogma  che cade dall’alto, ma il dogma incarnato nella figura concreta  di Gesù, per un cristiano; oppure il dogma dell’inviolabilità di Dio visto come fonte della vita eterna e di liberazione dalla schiavitù, per un ebreo;    oppure il dogma della invincibilità e dell’onnipotenza di Dio che solo  può tutto, che ha in mano i destini dell’umanità pur lasciando l’uomo libero, per un musulmano.

La verità è che il  mondo cristiano e non solo non è minimamente pronto a farsi un popolo di angeli;  vuole rimanere qui  dove si sta benissimo, perché c’è tutto;  sesso, piaceri, comodità, divertimento, mentre di là, nel mondo divino, se mai esisterà,  c’è  la pace assoluta, niente sesso (non come viene praticato nel mondo), niente divertimento, nulla di tutto quello che  ci tiene occupati qui, in questa realtà…e questo fa paura, perché è così poco umano, è così poco  vicino all’uomo il Paradiso.

Ma ne siamo proprio sicuri?  Di là, nel mondo celeste,  più nessun bambino piangerà perché seviziato; là, nel mondo celeste,  non ci sarà più nessuna donna rimasta vedova per avere perso il marito in guerra o stuprata per il più bieco dei progetti di conquista, né nessun suicida o assassino o ladro o impostore, o martire; solo questo dovrebbe farci provare almeno interesse per questo mondo sconosciuto  che ci chiama o potrebbe chiamarci. La prova che attende il cristianesimo (e non solo)  oggi è proprio questa:   cominciare a pensare  che veramente siamo qui solo di passaggio e dimostrare al mondo islamico che la morte ci appartiene in modo prioritario, assunto che il mondo islamico sia pervaso dallo stesso rispetto per la vita di cui il mondo occidentale sta ancora imparando con enorme fatica a dare prova; non si può amare  infatti l’idea che noi penseremmo alla morte in  termini di salvezza (dopo che siamo stati portatori di morte per secoli) , mentre  alcuni musulmani (una assoluta minoranza) stanno mandando i loro giovani e addirittura i loro bambini a morire e ad uccidere con l’inganno; l’islam  non può certo identificarsi in qualche sua setta minoritaria,  ma deve fare attenzione se non vorrà pagare alla storia  gli errori delle sue estreme minoranze. C’è un aspetto in questa forma di violenza che la rende particolarmente odiosa, ossia il fatto che colpisce  mascherandosi, a tradimento. I crociati colpivano (e colpiscono) nelle piazze a viso scoperto; dietro di loro si celavano (e si celano) regie più o meno  oscure  che però si rendono preannunciate e visibili sulla scena; in questa nuova forma di violenza invece l’aspetto oscuro ed ingannevole viene volutamente coltivato fino alla fine perché deve strategicamente colpire nella maniera più efficace ed infallibile. Solo  la mafia era arrivata ad elaborare un simile sistema di asservimento della gente, con l’aggravante che il sistema mafioso è un puro sistema criminale che fa leva sulla mancanza di cultura sociale; questo a precisazione che dovrebbe essere più facile debellare la mafia dell’integralismo islamico e di qualunque forma di assolutismo ideologico. Peccato che questa efficienza d’azione sia solo quella di seminare morte, di aggiungere odio ad odio, dolore a dolore; e che cosa centra Dio in tutto questo? Dio verrà dopo; dopo ogni agire umano di qualunque tempo,  di qualunque natura, seguirà in ultimo l’intervento divino,  comunque già presente sotto forma d’ispirazione nell’agire umano di quegli uomini che non si stancano di cercarlo; Dio si è conservato l’ultima via di fuga, l’ultimo spiraglio prima della fine, non si è certo affidato al solo volere delle sue creature, che avrebbero potuto e che  potrebbero comunque smarrirsi e verso le quali  l’amore non permetterebbe nessuna forma di consolazione per la perdita subita.  Dopo avere lasciato il creato libero di fare tutto quello che vuole Egli  si è garantito il passaggio finale, quello di tirare le somme, quello di interrogare le nostre anime ed i nostri corpi  morti o vivi che saranno.

-“ Hai tu pensato alla tua libertà unitamente al tuo essere fratello coi tuoi fratelli ?” e ognuno risponderà: “Sì, no, ogni tanto, mai…”

-“Sei tu pentito di quello che hai fatto?”:  “Sì,  un poco ,  non me ne frega niente e  in assoluto lo rifarei…”

Se così non  avesse fatto sarebbe stato un Creatore imprudente e dunque sarebbe stato un cattivo Dio, mentre Dio,  per l’uomo che lo pensa , non può che essere la perfezione, l’impossibilità  allo sbaglio. L’errore è solo e sempre soltanto dell’uomo. Se si comincia a dire che anche la perfezione può sbagliare, allora non serve fare né della filosofia né della teologia;  le parole perderebbero il loro senso ed il pensiero diventerebbe solo un grande ciarlare senza costrutto. L’uomo vorrebbe rimanere  libero  e non soffrire;  quest’idea è accattivante ma impraticabile; rimane sempre migliore dell’idea  di Kirillovh[1]  che  auspicava un mondo in cui la libertà non sarebbe più stata un bene  desiderabile ma solo una grande bestemmia.

Essere “persone” a volte comporta una tale fatica   che il confine tra la sanità di mente  e la follia si assottiglia a tal punto  da non potere più essere bene individuato; ci sono così sanità del tutto malsane e follie del tutto savie; ed anche sanità  e follie apparenti .  Questo è oggetto di studio della psicologia e della psichiatria  , chiamate a dirci come è l’uomo nel suo  sistema nervoso, neurologico, psico-fisico, emotivo;  la sola scienza invece  maggiormente competente   a dire “chi è” l’uomo nel suo pensare e quindi volere,  rimane la filosofia, almeno quanto la teologia è preposta a dirci   chi è Dio.

Che l’evoluzionismo lo abbia fatto  discendere dalla scimmia  piuttosto che da un bue solo perché tale specie animale c’è straordinariamente somigliante, è comprensibile,   ma  che tale argomentazione curiosa  abbia avuto la capacità di considerare chiusa e  capitolata  la questione di dove venga l’uomo e chi l’abbia fatto (o se c’è un creatore dietro di esso),   questo non è ancora accaduto  di saperlo per via scientifica. Per via scientifica forse non lo sapremo mai, ma è il cuore che può dare le risposte verso le cui domande la ragione tace. Certo, la scienza-tecnica è una pratica estremamente giovane  nel mondo della ricerca e può essere che tra altri duemila anni  si possiederà informazioni tali per cui si saprà  forse per certo chi è il responsabile della specie umana.

Rimane  solo una questione di estrema importanza: in quanto uomo del proprio tempo, che vive nel proprio presente, e non tra i duemila anni del futuro o nei duemila anni del passato,  l’uomo necessita di darsi delle risposte nell’oggi che vive,  non quando ormai non ci sarà più, o quando ancora non ci poteva essere, ossia quando  il proprio  essere nato in anticipo o in ritardo  comprometterebbe irrimediabilmente  la qualità morale della propria esistenza; io, uomo con le stesse caratteristiche di qualunque persona  di qualunque tempo,  in quanto essere universale, devo avere gli stessi diritti, gli stessi doveri, lo stesso “destino” , la stessa qualità di vita  morale di una persona di qualunque tempo.

Chi, cosa, quale sapere, quale  principio  può garantire tutto questo?  Non certo la scienza, che nasce piccola, tardiva e procede al rallentatore nei campi dove più interesserebbe il suo sviluppo , e di contro, pur crescendo a passi enormi in certi altri  settori , non costituisce di per sé garanzia di nulla per quel che riguarda le questioni etiche ed il problema della felicità, perché la scienza è per natura non immorale ma amorale.

La scienza  cura le malattie che conosce se ha il danaro per fare ricerca, se ha la voglia di farla e l’occasione di curare ; la politica con la scienza  fanno viaggiare se si hanno il tempo e le possibilità di farlo, rendono comoda e migliore  la  vita nei limiti del contingente a persone che staranno sempre meglio mentre altre staranno  sempre peggio,  fanno  vivere più a lungo se non  accade un incidente prima del dovuto;  ma non dicono  tuttavia perché si vive e perché  si deve morire. E’ improprio  parlare della scienza come di qualcosa che procede lentamente nell’era della genetica e della sofisticazione tecnologica al suo massimo livello,  ma qui s’intende distinguere quanto  tutto questo immenso patrimonio di conoscenza arrivi a modificare la vita della persona comune, non intesa come singolo caso, ma intesa come fruitore-tipo  di un certo benessere raggiunto e quanto piuttosto questo benessere  rimanga   impotente a cambiare in meglio la realtà del vivere quotidiano.

E’ vero, la vita della massa delle persone è cambiata, cambia e cambierà in tempi sempre più rapidi, e allora il problema è anche contrario e consequenziale: quanto  si procederà nella sperimentazione, dove si potrà arrivare e come si potrà  regolamentare  l’impiego dei dati e degli strumenti  acquisiti?  Grandi scoperte portano a grandi miglioramenti ma anche a grandi pericoli; è un poco  il dilemma che si pose A. Einstein (1879- 1955) quando contribuendo alla scoperta della formula che ha portato alla costruzione della  bomba atomica,  poi se ne  rimproverò l’opera.  Non si scandalizzi la ragione di cui noi tutti siamo figli; questo non è oscurantismo; si è grati ai buoni ricercatori e ai buoni politici (rarissimi) che permettono  una medicina, conoscenze e stili di vita sempre più all’avanguardia, si è grati all’ingegno meraviglioso di chi dedica la sua esistenza a combattere le malattie, l’impotenza del bastare a se stessi, ma il problema etico rimane ed oggi viene a porsi in modo serio nelle aree stesse del vivere quotidiano.

Ecco la scelta  necessaria per milioni di individui della religione; la religione  mette nelle mani il cielo, per usare un’espressione poetica; la religione ci fa sentire cittadini dell’universo e del tempo, non solo del nostro  piccolo limitato misero mondo reale. La religione guarda con gli occhi dell’anima, del cuore, dello spirito;  è una parola amorevole  che dà senso al non senso,   che cura le malattie inguaribili,  che  soccorre le lacrime inconsolabili.

Il problema è come applicarla; non può essere imposta, non può essere propagandata, non può auto-imporsi, può solo essere scelta nel cuore, nel pensiero e nell’anima. Ovviamente si sta parlando di un senso profondo e autentico dell’essere religioso. E’ come stare in un pozzo oscuro;   si sta dentro   questo pozzo    fondo e non si riesce a venirne fuori ,  nonostante tutto l’ impegno e  la  buona volontà di uscirne,  perché i problemi sono tanti, troppi, due passi si sale e tre si scende in quanto il terreno sotto di noi cede, frana, inghiottendoci;  improvvisamente arriva la religione,  una stupenda  donna  vestita di luce,  che   parla e  ci consola ; gli irriducibili della ragione la chiamano fuga dalla realtà;   i materialisti   la chiamano  irragionevolezza; gli anticlericali la chiamano dogmatismo; gli ipocriti la chiamano  illusione;  un uomo semplice e di buon cuore la chiama semplicemente  speranza o preghiera o bisogno di fede. Anche la filosofia ha le sue colpe: non è mai bastata ad acquietare il bisogno di pace dell’umanità, anzi , a volte è stata di ostacolo alla sua evoluzione, proprio perché il pensiero in sé è ancora qualcosa di troppo incerto; si ha un pensiero compiuto e fomentatore di nuove idee solo se dentro e sopra il pensiero stesso sta l’uomo che lo pensa e dove c’è un uomo c’è anche il suo bisogno di fede. Religione dunque intesa come capacità di fede non come dogmatismo assoluto o come formalismo.

Severino (1929) , illustre filosofo del nostro tempo, nel suo Pensieri sul cristianesimo ci ha spiegato le ragioni del fallimento della fede; la fede non sarebbe  possibile perché non può essere pura in quanto collusa col dubbio, e non essendo pura non può salvare nessuno. Ma chi lo può dire che non ha salvato nessuno? Nessuno può sostenerlo con certezza, al contrario, le vite dei fedeli parlano da sé per loro stesse; la fede sarà pur collusa col dubbio ma nell’istante che si abbandona alla verità diventa operatrice, diventa reale, concreta. Semplicemente  il pensiero degli atei o dei non fedeli dimostra che la fede è semmai un dono del quale tutti potremmo beneficiarne; è senz’altro vero che non c’è fede dignitosa senza verità: la fede è tale proprio perché alberga nella verità.

In quanto alle verità presunte e relative occorre dire che se sono tali non sono vere; anche qui occorre la chiarezza delle parole e dunque ciò che è vero non può essere falso secondo il principio di non contraddizione.

Tutto il medioevo si è occupato fino alla  paranoia della prova dell’esistenza di Dio e tale prova non è stata rinvenuta per la semplice ragione che  non esiste, in quanto l’assoluto, proprio perché assoluto,  non necessita  di avere delle prove e di renderle manifeste. E’ l’uomo che insiste a cercarle, perché crede di poterle trovare come si trova un albero, o un altro uomo, o un oggetto qualunque e crede che Dio debba provargliele come se fosse un uomo qualunque che ha da rendere conto di qualcosa mentre per trovare Dio dovremmo amarlo cioè sentirlo; senza amore, niente Dio. Il Signore del mondo  è talmente diverso dal modo umano di ragionare che per capirlo  bisognerebbe essere nella sua testa e  una volta   fossimo nella sua mente scopriremmo che Dio è puro cuore unito ad intelligenza assoluta; amore perfetto e ragione perfetta si identificano, non si contrastano, non si contraddicono come spesso accade nell’essere umano che crede di dovere scegliere tra le ragioni presunte del sentimento e quelle certe  della ragione, o tra  i sentimenti corrotti ed i sentimenti giusti. Un uomo si nasconde perché si diverte a farlo o perché non vuole o perché non può   farsi trovare;  Dio si nasconde perché noi lo abbiamo negato e mentre  noi lo neghiamo  Lui accetta di rimanere nascosto perché non vuole obbligarci a nulla.

E dunque non è Dio che sta  nascosto;  Dio è sotto i nostri occhi, ma noi non sappiamo vederlo. In questo senso è un Dio che non si vede. Egli si mostra in tutto ciò che vediamo, e tocchiamo, e odoriamo, sempre magnificando la vita che c’è stata data;  solo che non ci si rende conto.  Si crede che ci debba essere una prova aggiuntiva  della sua esistenza,  una prova speciale;  ma questa prova è solo nella nostra testa. Non è la prova che ci manca, è l’amore, è solo la scelta dell’amore che deve mettersi in campo, ed insieme all’amore manca l’intelligenza corrispondente all’amore perfetto. Del resto quando è venuto e si è mostrato e  si è fatto toccare , odorare, sentire,  non abbiamo capito che era il Salvatore , non lo abbiamo riconosciuto, perché il Messia  avrebbe dovuto avere, secondo la nostra  opinione, probabilmente tre occhi, mille miliardi di cavalli al seguito, un esercito faraonico di servi e con questi  ridurre il mondo in cenere,  per come il mondo lo aveva trattato e avrebbe poi trattato i suoi amici.

Noi uomini di fede gli abbiamo dato dell’impostore, del bestemmiatore, del traditore; lo abbiamo calunniato e perseguitato senza ragione; lo abbiamo messo nelle mani dell’ istituzione temporale, perché volevamo che qualcun altro si prendesse la responsabilità di mandarlo a morte insieme con il nostro volere; uccidere in gruppo fa sentire meno colpevoli, almeno così ci s’illude.

Lo Stato ce lo ha restituito e ci ha detto, a noi uomini di fede, a noi uomini di religione, che non vedeva colpa in lui, di sbrigarcela da soli;  ha cercato di salvarlo,  condannandolo più obbligato che volente alla sola fustigazione,  anche se la verga in mano a uomini lascivi e meschini servi di un potere che non dà spazio alla tolleranza ed ad un’ equa giustizia, non fu per niente misurata;  la stessa siffatta istituzione temporale ci ha dato un’ultima possibilità: “Posso liberarvi il vostro re”. E noi, uomini di fede, abbiamo urlato: “ Vogliamo Barabba, si mandi a morte Gesù”. La chiesa ha ucciso Dio, la chiesa dei farisei prima che diventasse la chiesa ecumenica  di oggi, quella  chiesa che stava nella piazza rappresentata da una folla assetata di vino più che di acqua vivente,  affamata di  pane di grano più che di pane spirituale,  sobillata dai suoi capi solo preoccupati del potere e drammaticamente ignari del crimine che andavano consumando; ma lo ha fatto per ignoranza, solo per ignoranza, non può essere condannata per questo. Si ricordi il messaggio etico di Socrate: le colpe commesse per non conoscenza non sono colpe e questo lo riservava  per amore della verità non solo ai suoi amici ma anche ai suoi stessi nemici.  L’istituzione religiosa di allora non era stata concepita per riconoscere il Figlio in cui Dio si era compiaciuto  tra tutti i nati nel mondo, ma sembra continuare a non esserlo in parte anche oggi nonostante non ci sia più nessuna ignoranza in merito all’identità di Gesù: tradisce il messaggio evangelico  nel dimostrarsi disunita, che è poi il peccato condiviso da tutta l’umanità.  Subito dopo l’istituzione religiosa, arrivano le colpe dello Stato ben più gravose, quello Stato  che non ha saputo essere giusto, ossia etico, che avrebbe potuto avere la serenità di giudizio nel salvare Gesù, ma invece si è abbassato a fare i conti della serva, si è lasciato comprare dagli interessi di parte; non poteva Hegel riuscire in un compito che fu impossibile per il migliore di tutti gli imperi del passato, quello romano; ma quello stato romano  ateo e precristiano era poi  tenuto ad occuparsi di etica o doveva pensare solo alla politica, a quella politica che significava soprattutto la conservazione del potere? Se così fosse allora anche lo Stato è innocente, e dunque  si è tutti innocenti, non ci sono colpevoli.  E se invece si dicesse che siamo tutti colpevoli  perché   ognuno si è tenuto avviluppato  alla propria piccola conoscenza, che poi è una inadeguata intelligenza?   Il conosciuto  può  generare  imprudenza,   lo sconosciuto può  generare ansia, paura ed errori;  l’istituzione religiosa di allora ha   continuato   a credere che  il  nazareno non poteva essere il Messia,  perché parlava di un regno che sarebbe venuto mentre lei attendeva  quel regno lì  davanti ai  suoi  occhi e perché l’ebraismo non concepisce  un Dio che si incarna, perché Dio è Dio e l’uomo è uomo, dunque Gesù essendo visibilmente uomo non poteva essere anche Dio e nel momento in cui lo sosteneva non poteva che mentire; conclusione: per l’ebraismo l’uomo sulla croce era un impostore, non il Messia.  Se l’istituzione religiosa ebrea si è dimostrata “atea” per comprensibile inadeguatezza, lo stesso terribile errore di dimostrarsi inadeguata accadrà all’istituzione religiosa cristiana che non andrà a proteggere quanto avrebbe dovuto  la stessa presenza di Gesù nei suoi poveri;  per rimediare alla sua immensa colpa  è riuscita a dichiararsi dopo duemila anni di dominio incontrastato “colpevole”, lei, che è  anticipo del regno celeste nel mondo, immagine visibile in terra di quanto è rimasto e non può che rimanere invisibile. La sua dichiarazione di colpa  ha offerto parole liberatorie  ma non certo risolutive; l’istituzione religiosa nasce su di un morto eccellente e nasce per ricordarne la memoria e per metterne in atto  il messaggio  trascendentale. Il termine ateismo in questo contesto non deve essere inteso come una condizione estrema, ferrea ed irremovibile; si è atei nel semplice momento in cui non si dimostra d’avere fede, sempre per il principio che conta quello che si fa e non quello che si dice; in altre parole si è tutti un poco atei, in pieno accordo con Severino.  Non è il caso di scandalizzarsi (ammesso che ci possa essere ancora chi si scandalizza di questo) e mi rivolgo ai religiosi che associano la parola ateo a chi fermamente non crede né mai crederà. Con questi schematismi la religione ha perso molto; ha fatto sentire in pace con se stessi i  presunti fedeli, che  invece  quotidianamente   corrono il pericolo di dannarsi l’anima al pari di un qualunque acerrimo ateo, contribuendo a corrodere  la salute della fede. Anzi, l’ateo  corre meno di rischi, perché lui almeno non  illude il prossimo , non pretende di essere un esempio per nessuno, crede di non  ingannarsi ed è sincero con se stesso.

In quanto all’ istituzione temporale che di presunti Messia  non sapeva nulla, lei sì  avrebbe salvato il figlio del falegname in cui vedeva solo un uomo pacifico, non certo un pericolo per il proprio  potere (non ancora), dal momento che predicava  di dare a Cesare quel che fosse di Cesare e di non alzare la spada contro i tiranni, dimostrando di non avere intenzioni sobillatrici  pericolose; tuttavia deve fare i conti con il popolo, con la politica, con la chiesa; ed alla fine molto hegelianamente se ne lava le mani.

I detentori della religione avrebbero dovuto  essere i veri interpreti dell’Antico testamento, la parola scritta di Dio per un ebreo e per il suo popolo,  ed invece non ne furono all’altezza; quindi avrebbero dovuto esserlo adeguatamente del Nuovo testamento, la parola continuata di Dio attraverso suo Figlio per un cristiano,  ma si è ancora molto lontani dall’avere appreso la verità; di pari lo dovrebbero essere del Corano, la parola di nuovo scritta da Dio che ha parlato agli uomini non cristiani e non ebrei attraverso il beato Maometto, il nuovo Adamo  dell’ umanità pronta a convertirsi.

Lo Stato  di per sé ateo, liberale, laico,  avrebbe dovuto essere non solo ascoltatore di bisogni oggettivi, di equilibrio  e di giustizia, ma anche ascoltatore di bisogni soggettivi come  la  pace, perché questo chiedono i popoli; di fatto per entrambi i contendenti della verità  le premesse oggettive non sembrano essere le migliori.

Gesù non è venuto né solo per la Chiesa, né solo per lo Stato; è venuto per entrambi, per tutti, indistintamente, per l’uomo intero ed indivisibile. Lui ha parlato all’essere  in quanto umanità,  e per primo nella storia ha detto che la donna doveva avere la stessa dignità dell’uomo,  e per primo   ha detto che  bisogna amare non solo chi ci ama ma anche chi ci odia. Si è lontanissimi dall’averlo ascoltato; sia l’istituzione religiosa che l’istituzione temporale sono ancora oggi in molti paesi palesemente  maschiliste, laddove  si fanno sistematicamente discriminazioni  di vario genere e la donna rimane sfavorita e penalizzata; del resto sempre il maschilismo più radicale sosterebbe che non può venire nulla di buono da un essere che proviene dalla costola dell’uomo, che è stato creato a completamento del maschio, che conclude la creazione ma non la genera, che   entra nel mondo diffidato  e sottocontrollo e che soprattutto avrebbe gettato discredito sull’affidabilità dell’essere maschile. Se è per questo anche i farisei erano convinti che non potesse venire nulla di buono dalla Galilea. In quanto al perdono come espressione d’amore per il nemico  è un argomento delicatissimo che viene o frainteso come  licenza di fare tutto, o lasciato totalmente inatteso perché vissuto come palese ingiustizia, mentre il perdono costituisce un bisogno e una possibilità  che deve maturare nello spirito a beneficio del singolo che lo evolve e della comunità che lo assiste.

[1] Il riferimento è tratto dal romanzo di F.Dostoevsky  “I fratelli Karamazov” che dipinge un personaggio  allucinante e propagatore di teorie nihiliste.

nb:  questo capitolo segue i punti  a-b della prima parte di questo libro

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