SCOPPIERA’ LA LUCE

“Venuto al mondo”  non  è una storia qualsiasi.

Quando l’ho visto, ho lasciato la sala non poco frastornata. C’erano molti presenti, qualcuno aveva pianto, più che altro le donne, uno vicino a me sentivo diceva  “Bello”, ma sono certa  non capisse l’implicazione di quel giudizio.  Credo che la maggioranza degli  spettatori l’abbia trovato semplicemente una storia assurda e violenta così come è assurda e violenta la guerra.

Come dire: “Fatti così possono accadere solo in certe situazioni estreme”, ma  noi viviamo in un mondo normale, dove le regole esistono e la violenza contro l’umanità non può succedere.

Non è proprio così.

Cerchiamo di sciogliere l’intricato nodo di questa matassa aggrovigliata.

C’è una coppia giovane, bella e innamorata. Gemma e Diego.

Che fortuna, si può subito pensare.

Però c’è un però ( pareva strano che le cose potessero andare tutte lisce…).

Lei è italiana, non può avere figli, è sterile, e non possono nemmeno adottarli, perché lui, di origine americana, ha precedenti di droga (del tutto episodici) e lei ha già vissuto un divorzio.

Per pura circostanza  o forse non proprio per pura casualità  vanno a  fare un viaggio  in  Iugoslavia, dove già erano stati e si erano conosciuti ed avevano lasciato degli amici.  Artisti, scrittori, musicanti e giocolieri….Sono gli anni terribili  che vedranno di lì a poco cadere il paese in una ferocissima guerra civile, di cui  loro ancora non immaginano nulla.

Ci sono varie  etnie, cattolici e musulmani mescolati a   bosniaci, sloveni, croati, serbi, montenegrini, macedoni, albanesi e ortodossi, tutti che si odiano. La parte prevaricatrice  arriverà a compiere crimini contro l’umanità verso la parte soccombente. E tutto questo in pieno centro Europa e sotto gli occhi impassibili  e distratti  di tutti gli altri paesi vicini e lontani. Storia di qualche decennio scorso, non di secoli fa. 1992.

L’orrore urla al cielo  fino a che questo scandalo   potrà avere il suo epilogo.

La nostra piccola storia dentro questa storia gigante  assume contorni  sempre più oscuri e complessi,  che si disvelano allo spettatore come al lettore,  passo dopo passo, pagina dopo pagina, a sorpresa, creando un effetto domino.

L’idea iniziale dei due giovani protagonisti è quello di andare da un medico e di predisporre una inseminazione artificiale dentro il grembo di una terza donna, Aska, una promettente cantante   che si è resa disponibile, ovviamente per una questione di denaro. Vuole fuggire dal suo paese e andare altrove a fare fortuna.

La faccenda andrebbe così se non fosse che scoppia nel frattempo il conflitto e la gestione di questa procedura salta. Non solo salta  la procedura medica ma anche qualunque progetto normale  di vita.

Per il momento  non rimane che l’atto naturale, quello che per ovvie ragioni   la giovane donna innamorata e gelosa non avrebbe voluto permettere.

Nel nome di un sogno che si ritiene assoluto e non modificabile, si accetta il sacrificio, si accetta l’intrusione, si accetta il rischio di mettere tra le braccia di un’altra il proprio sposo, il proprio tesoro.

L’evento sta per accadere , anzi accade proprio, perché ci vediamo in scena   senza notizie aggiuntive e specifiche   la terza persona di questo singolare triangolo, incinta, assistita dal compagno  che l’aiuta a proteggersi, a ripararsi dall’infuriare delle bombe e dai tiri dei cecchini.

Il ventre della gestante   cresce di pari passo della disperata gelosia di Gemma   che vede il proprio sposo (non sono di fatto sposati ma è come se lo fossero)  sempre più distante  per stare accanto a quel figlio che deve venire al mondo.

E viene al mondo.

Nasce un bel maschio sano e urlante,  in un giorno ordinario di guerra tra le macerie desolate di Sarajevo.

C’è una donna affranta che l’ha partorito. Intorno a lei, due uomini , il padre presunto con l’amico  e una donna  che  ha  assistito  al parto tra le lacrime.  Ricorda   una scena biblica. È nato un bambino innocente, Pietro, per salvare il mondo dalla sua ferocia,  e questo bambino deve essere protetto e portato in salvo.

La madre naturale dice di non volerlo, e lo offre all’altra. Ha  lo sguardo di una morta. Forse è viva solo perché il cuore le batte, ma lei non lo sente.

L’altra lo prende, dietro il pagamento della merce promessa, e si precipita all’imbarco, seguita dal compagno.

Dovrebbero salire sul veivolo militare  entrambi,  ma Diego   rimane a terra. Ha perso il proprio passaporto.

Lei arriva in Italia distrutta e disorientata, con questo fagottino in braccio, a cui non può offrire il proprio seno perché asciutto come un pozzo vuoto e secco. In memoria del fatto che non è la vera madre, che quel bambino è stato portato via alla sua madre  genetica, che però l’ha ceduto volontariamente e coscientemente.

La nota un giovane intendente militare  che le presta soccorso.

Tornata a casa, dopo poco tempo viene a sapere della morte accidentale del compagno, dichiarato precipitato da uno scoglio.

Il militare che l’aveva assistita nel suo rientro  in Italia diventerà il suo nuovo compagno e il padre effettivo del bimbo.

La storia sembrerebbe finita, ma deve ancora arrivare il bello.

Ci sono due storie dentro questa vicenda di macro umanità. No, ci sono tante storie, anche le nostre a ben guardare…

Improvvisamente  scopriamo che  il piccolo Pietro,   venuto al mondo in un terribile orribile e sciagurato giorno di guerra,  è esso stesso frutto della guerra.  La nostra promettente musicista non è rimasta gravida in un momento di mercificazione volontaria  del proprio corpo, ma in un momento di violenza inaudita ad opera di un gruppo di animali miliziani  che dopo averla oltraggiata   ne fanno preda di conquista.

L’amante  disatteso  le era rimasto accanto per andarla a salvare.  Un fiume di denaro in cambio della sua liberazione, ridotta a schiava dentro un bordello per i soldati.

E la sua morte accidentale si scoprirà essere stata un suicidio.  Troppo orrore e troppa violenza, ma soprattutto troppa solitudine,  possono portare alla depressione, alla rinuncia a vivere.

Lui stesso fu obbligato ad assistere impotente e clandestino  alla scena  dello strazio. Non aveva potuto intervenire, perché sarebbe significato   una morte certa e inutile. No, diciamola  meglio: rimase nascosto come un codardo immobilizzato dal terrore,  puro e sano  terrore  che ci protegge dalla distruzione.  Istinto di sopravvivenza.

E poi scopriamo che nel frattempo  Aska   andrà a  sposarsi   con l’amico che aveva anch’esso assistito al parto e che le darà un nuovo figlio, una bambina, questa volta tutta sua.

La donna che aveva dichiarato in tempi normali e non sospetti di provare schifo per la famiglia, si accorge  che solo una famiglia avrebbe potuto salvarla dalla desolazione, le avrebbe permesso di sconfiggere il ricordo di quella insanabile ferita.

Però  fratello e sorella stanno vivendo così,  separati e ignari l’uno dell’altro.

Troppo grande il desiderio di farli incontrare e conoscere. Di poterlo lei stessa vedere per una sola volta in volto, negli occhi, il suo “Non so come si chiama”. Magari potergli dare una semplice carezza.

Si organizza una rimpatriata, alle spese dell’inconsapevole madre adottiva  che non conosce ancora la verità e che ha vissuto tanti anni nel rimprovero d’essere stata una inefficace  compagna.

La famiglia tutta si ritrova.

Non c’è più la guerra.

C’è un meraviglioso sole, c’è il mare, c’è la voglia di vivere e di perdere la memoria.

Ci sono due  ragazzi  che si sorridono e ancora non sanno  d’essere fratelli.

C’è un padre mai diventato padre, rimasto vivo nella carne di chi lo ha amato, e un padre  che lo è diventato di fatto,   per pura coincidenza.

Una madre dal ventre sterile che ha coronato il suo sogno di maternità.

Un’altra madre diventata tale due volte,  i cui figli abitano due vite separate e lontane,  non comunicanti.

E c’è la vita che pulsa, pulsa, pulsa, dentro nei nostri cuori, come un martello a percussione  il cui ritmo accelera, accelera, accelera sempre di più.

Fino a che scoppierà.

Scoppierà la luce.

IL FILO DI ARIANNA

Mi considero una persona molto ignorante.

Potessi scegliermi la vita così come si mi sono scelta, nel limite del possibile,  le persone che mi vivono accanto, vorrei poter leggere dalla mattina alla sera e poi naturalmente scrivere e dipingere e  parlare con gli amici e stare con chi mi vuole bene…poi vorrei potere utilizzare queste abilità al servizio degli altri. Insomma, non ho grandi ambizioni.

Ecco,  sono una persona molto limitata, come tutti; cerco di convivere  con quello che non so fare  o meglio, ho imparato a conviverci,  tenendo  le difficoltà   sotto controllo.

Ai miei limiti preferisco le mie virtù. Non per farne bella mostra, ma  perché sono le doti a farci procedere e a far progredire dunque tutto il gruppo  con cui ci si trova ad operare…

Potendo  oggi  scegliermi il lavoro, tra i vari possibili  ho messo   l’insegnamento, perché lavorare con i piccoli o con i ragazzi  è un privilegio che ho imparato ad apprezzare anch’esso con il tempo.

Purtroppo gli insegnanti trovano sul campo, e già lo sappiamo,  una complessa  cerchia di difficoltà. Si potrebbe replicare “Come in tutti i lavori”, è vero,  ma questo non è un mestiere qualunque, e pur non essendolo,  non viene riconosciuto dallo Stato e dalla società  come quanto  dovrebbe e merita.

Vuoi che  gli errori politici  del presente ne hanno compromesso  la reputazione, vuoi che le mancanze formative storiche   ne hanno inficiato l’efficienza ,  vuoi tante altre scusanti,  il punto conclusivo  è che  fare il maestro o il docente che dir si voglia, oggi,  non è affatto un’impresa facile.

Potrei raccontare  seduta stante due fatti delicati ed incresciosi  che mi sono giunti all’orecchio  con grande preoccupazione per le persone che li stanno vivendo.

Ecco la  Prima storia.

Lui  è un maestro  di una certa esperienza; laureato, si trova ad insegnare su un posto comune l’area di italiano  ad una quarta classe del ciclo primario,  e tutto sembrerebbe procedere nella normalità.

L’insegnante in questione è appassionato   di materie  civili e sociali, quindi cerca di trasmettere ai propri alunni  l’importanza dell’onestà, della correttezza e dell’impegno. I suoi alunni sembrano seguirlo   tutti, senza particolari difficoltà,  fino a che emerge improvviso il problema. In verità il problema magari era già latente nel tempo, però non sempre si è in grado di accorgercene, e non sempre ci sappiamo  relazionare nello specifico con tutti con la medesima  efficienza e consapevolezza.

Accade dunque  che uno dei genitori  della classe in questione  va a lamentarsi dalla Preside  per questo tipo di lavoro  tenuto dall’insegnante;  il dirigente richiama la docente senza minimamente preoccuparsi delle motivazioni del titolare e senza entrare nel merito della competenza didattica e disciplinare.

Quello che disturba ovviamente è il semplice fastidio di doversi prendere cura di un problema di troppo…

Il docente  a sua volta si rivolge a un sindacato  per avere consigli e pareri.

Il sindacato  non tranquillizza affatto    il professore  che   viene informato  di una ben triste realtà generale; mai come in questo periodo  il mondo della scuola è subissato ed aggravato  di  denunce  di vario genere.  Genitori che denunciano gli insegnanti ed  insegnanti che denunciano l’amministrazione.

I motivi possono essere i più vari; da quelli meno gravosi  a quelli ovviamente più seri,  ma per lo più si tratta  di piccole incomprensioni  che una buona dirigenza dovrebbe sapere  assolutamente   prevenire e  contenere.

Del resto un dirigente  è dirigente  a far che cosa?  Il suo principale ruolo, credo, dovrebbe essere quello di imparziale coordinatore e supervisore    tra le parti in causa.

Da un lato ci stanno i genitori che da esclusi sono diventati un’importante e pericolosa   presenza  del sistema scolastico; dall’altro i docenti che da assoluti protagonisti sono diventati  emeriti nessuno  nelle mani di una dirigenza che  in pratica  si ritrova  un potere assoluto  sulle questioni. Dalle più ordinarie alle più straordinarie.

La nascita dell’autonomia scolastica ha segnato questa svolta, che se da un lato ha portato un vento di rinnovamento ed apertura, dall’altro  ha gettato i singoli istituti nello sbando assoluto  di  direttori  non all’altezza  del loro  compito.

Nello specifico della nostra storia,  l’insegnante viene scoraggiato   a procedere per via legale.

Alla fine il tutto si ridurrebbe  a una ben misera cosa: sarebbe la sua parola contro quella di un sistema che non lo   sorregge.

Dieci anni di lavoro  ritenibile  onorato e oneroso, vengono cancellati in un istante. Quanto meno messi in dubbio  o assolutamente non considerati.

Preso   da sconforto e dal timore di un peggioramento, l’insegnante decide di stare al gioco, ed ammette davanti al suo capo d’essere effettivamente un poco stressato, e quindi ammettendo delle colpe di comunicazione e di consegna (ma quali???)  chiederebbe per l’anno nuovo uno spostamento su di un incarico più leggero, meno impegnativo, magari un ruolo di sostegno.

La verità è che questo si rivela essere il solo modo  per  sottrarsi ad un disagio che è già stato  sentenziato senza possibilità d’appello.

Davanti al mea culpa del povero maestro, davanti alla sua abiura  mal digerita  ma imposta da necessità esterne e contingenti, la  dirigente si  fa docile e ben disposta.

Tutto viene così in un battito risolto a quattr’occhi dentro il silenzio di una stanza.

Il maestro ne esce risollevato ma abbattuto.   E’ stata messa in discussione da non si sa bene chi e da non si sa bene che cosa  la sua efficienza lavorativa, il suo  fino a prova contraria  buon operato di lungo corso.

La preside   ha esercitato nella totale autarchia  il suo compito  di direzione, senza contraddittorio concesso alle parti interessate,  senza le dovute precauzioni ed i dovuti provvedimenti   che dovrebbero tutelare sempre tutte le componenti chiamate in causa.

Passo alla Seconda storia.

Questa volta è una giovane docente   già  al  quarto anno di mandato.

Anch’essa laureata, ha scelto d’ insegnare negli istituti comprensivi  giusto per cominciare a fare punteggio.

E’ una simpatica ragazza, piena di entusiasmo e di capacità comunicative, molto afferrata nella sua materia. Dopo tre anni  non proprio  brillanti e fortunati ma comunque  utili a fare esperienza, le capita l’ennesimo incarico su sostegno.

Due soggetti,  una ragazzo senza particolari problemi, una ragazzina   con difficoltà di comunicazione abbastanza serie.

Tutto sembra andare nella norma fino a che un giorno  la sprovveduta docente all’interno della lezione scolastica improvvisa una breve conversazione   a sfondo sessuale; siamo in una terza media, gli alunni  sono attenti e curiosi,  l’insegnante pensa che sia una cosa buona parlare di certe cose a puro titolo formativo.

Succede invece che la ragazzina   con problemi di comportamento torna a casa a lamentarsi con i genitori i quali chissà cosa capiscono, o fraintendono,  e dunque si rivolgono alla preside a loro volta   lamentandosi.

Forse la faccenda potrebbe facilmente riprendersi e chiarirsi se non fosse  che proprio in quegli stessi giorni    viene arrestato  nel paese un giovane accusato di pedofilia; contro di lui ci sono  prove schiaccianti.

Tra le scuole interessate dove il delinquente  si recava a molestare i ragazzini  c’è anche quella in cui sta lavorando la nostra sprovveduta  collega.

Tutto assume in questo contesto  delle sfumature oscure e assai preoccupanti.

Il dirigente teme forse  che lo scandalo possa danneggiare la scuola, possa  venire in qualche maniera  aggiunto a questo episodio interno del tutto estraneo, del tutto  in sé irrilevante,  del tutto  slegato  da implicazioni  così pesanti e gravi,  ma pur sempre antipatico e che suona in quel frangente  come un campanello d’allarme.

Preso  da un’eccessiva ansia   fa convocare immediatamente il consiglio di classe, che in assenza della docente interessata in quanto   non presente per malattia la fa sospendere dal suo preciso incarico, relegandola    a mansioni del tutto subordinate alle altre docenti della classe.

La nostra improvvida collega si trova al suo rientro, senza nemmeno essere stata convocata,  demansionata, umiliata, accusata senza  prova  alcuna non dico di pedofilia  ma quantomeno d’essere poco equilibrata e comunque non affidabile.

Le si crea intorno un clima sottile quanto spietato  di sospetto, le insegnanti spargono la voce agli alunni che con quella docente    non possono uscire da soli in cortile.

E andare tutti i giorni in classe diventa un inferno.

Questo sì un vero inferno senza immediata  possibilità di ripresa. Vada che si viene nominati su  contenuti  che non ci riguardano e non ci appartengono, che non sappiamo padroneggiare e su cui dobbiamo farci le ossa,  ma trovarsi dal giorno alla notte in una situazione così di sfascio e di insidiosissima  china, è tutt’altra faccenda.

La sola nota positiva è che il preside non le fa nessun richiamo scritto, le dice solo che davanti a un nuovo episodio  non corretto provvederebbe di conseguenza.

In altre parole le dà un’altra possibilità  ma  la tiene in ostaggio, psicologicamente e professionalmente.

Le dice anche che se dovesse decidere di lasciare l’incarico, comprenderebbe, e non la  depennerebbe dalla graduatoria.

Ma  questa giovane ha un contratto fino all’avente diritto  e potrebbe in teoria arrivare fino alla fine dell’anno.

E poi licenziarsi significa rimanere senza stipendio.

Una ben complicata situazione da gestire. Lei è qui potremmo dire in trasferta, appartiene a quell’esercito d’umanità che tutti gli anni a settembre si mette in marcia dal sud verso il nord, alla forsennata  ricerca di alloggi, di sistemazioni, di accomodamenti più o meno di fortuna.

E alla sua situazione di precarietà  si aggiunge questa situazione di rifiuto e di sospetto. Che fare? Andare da un avvocato per farsi difendere? Andare da un sindacato? Sentire il parere degli amici? Dei colleghi? ma quali colleghi?

PRIMA COSA DA FARE  è riordinare bene le idee: non agire precipitosamente,  capire  bene quello che sta accadendo, affrontarlo in maniera che la questione non ci travolga.

Chiedere scusa per la mancanza di prudenza dimostrata, questo senz’altro,  ed è la prima cosa che la maestra si precipita a fare, ma poi c’è tutto il resto che va tenuto sotto controllo.

Occorre non demoralizzarsi, occorre  pensare positivo, occorre cambiare strategia con gli alunni, soprattutto con quello specifico alunno che ci ha creato il problema.

Non conta nemmeno tanto il fatto che questa studentessa abbia pubblicamente dimostrato d’essere non attendibile. Infatti il giorno dopo l’accaduto raccontato, l’alunna accusa davanti a tutti l’insegnante malcapitata di averle rubato la sua giacca, la stessa giacca che l’insegnante  sta indossando.

La maestra replica che non è la sua, che non potrebbe nemmeno esserlo  perché lei porta una 46 e non certo una taglia da teenager; l’invita dunque ad andare in classe dove senz’altro troverà la propria.

L’alunna va in classe dove infatti si trova  il suo  indumento, lì dove l’aveva lasciato.

E se invece per una circostanza casuale non ci fosse stato?  Per fortuna che c’è, e la nostra simpatica amica ne esce, almeno qui, indenne.

Non l’aiuta nemmeno tanto il fatto di parlarne con il sindacalista interno della scuola, il quale la comprende, la sostiene, ma non si può esporre più di tanto, in quanto lui stesso dipendente di quella stessa dirigenza.

Come vedete, amici cari, insegnare è una faccenda davvero molto delicata, molto complessa, molto impegnativa.

Mi si dirà di nuovo come molti altri lavori.

Questo però  senz’altro in modo particolare.

Chiedo alla giovane collega  che si è sfogata con me  cosa la preoccupa più di tutto e lei mi risponde con gli occhi persi: “ E’ che mi sono sentita una pedofila” che voleva dire “Mi hanno fatto sentire una pedofila, e nessun collega  mi ha saputo tendere concretamente una mano”

Questo io intendo dire quando parlo della nostra indifferenza verso il sociale. E della nostra ipocrisia verso i legami familiari. Se sul lavoro sapessimo meglio fare squadra, se sapessimo avere una formazione lavorativa  impostata sempre alla collaborazione, e se in famiglia fossimo meno ipocriti e più  sinceri,  forse questo episodio potremmo rigirarlo alla moviola con una sceneggiatura completamente diversa.

“Tornare ad educare” per tornare a essere una società che miete cose buone e non scorie radioattive. Ma io vorrei piuttosto dire  “Cominciare là  da dove ci siamo persi il filo di Arianna…”

Dove ho insegnato l’anno scorso in sala docenti stava affisso alla porta un motto che recitava: “Essere folli  non è sufficiente per lavorare in questo posto, però aiuta…”

Recitava il vero…

Il sole a levante

C’è  una paese pieno di case di sasso. Sta dentro una collina che guarda il mare che è abitato da grandi navi e  da  piccole barche.

Fino a ieri non sapevo che esistesse e mai avrei immaginato che sarebbe potuto divenire parte della mia vita.

Per tutta l’esistenza  mi sono trascinata come  fossi un  cavallo da soma  enormi pesi senza mai domandarmi  perché dovessi farlo, o come potessi evitarmi la fatica.

Sapevo di doverlo fare e basta.

Sapevo che era una  cosa necessaria   e basta.

Il  giorno  che ho  incontrato  un pezzo  speciale d’umanità  per il disorientamento  e l’emozione  mi sono persa dentro un labirinto.

Dentro questo groviglio di  foresta malsana  ed insidiosa ho vissuto  giorni terribili, dove il cielo ha smesso d’essere d’aria e la terra ha smesso d’essere solida, ed il fuoco ha smesso  di scaldare e l’acqua di bagnare. Io sapevo solo di non essere ancora morta, come m’avesse assalito un terribile drago  che ogni giorno  si mangiava un pezzo di me  senza che io potessi fare nulla.

Non sono morta perché  sono fatta di bellezza, ossia sto come un albero    aggrappata alla verità  che è come una lampadina che non può essere spenta da nessun terremoto e da nessun naufragio e da nessuna apocalisse.

Ho combattuto come un valoroso   soldato  che non sa quando smetterà di vedere morti e feriti  intorno a sé…e solo  si augura di trovarsi il prima possibile alla fine del tunnel.

Durante i lunghi mesi  di travaglio e di solitudine e di sconforto    i parametri normali di valutazione  sono stati  sostituiti  da   misure straordinarie.

Quando   ho creduto  di potere avere raggiunto  la meta che mi avevo prefisso,  ho sgranato  gli occhi per vedere meglio  e mi sono trovata in un porto sicuro.

Strano, ragazzi, una si butta a capofitto nella ressa degli smarriti e degli   esaltati per ritrovarsi dentro un ordinato   orticello candido   di fiori  e ricco di spezie.

Improvvisamente e finalmente i numeri sono tornati  a fare   sistema, il cielo è tornato d’aria, come la terra di sasso ed il fuoco di scintille  e l’acqua  di  gocce ballerine.

Meravigliosa la vita  che torna ad essere vivibile e piena di  sacrosante opportunità.  Da questo piccolo angolo di paradiso  dove le tragedie sono state inghiottite dalla carne che nel frattempo le ha digerite e ben assimilate,  osservo con buona pace gli umani che mi circondano e ce ne sono di varie categorie.  Alcuni hanno la mia preferenza e la mia disponibilità, altri sono stati recintati dentro luridi campi  dove loro stessi hanno deciso di  passare i loro giorni, altri ancora stanno in una terra di mezzo  nell’attesa di venire compresi.

C’è solo una certezza  in questa mutazione in continua metamorfosi;  e sono i nostri cari  che si sono dimostrati  attenti e vicini  nei giorni del terremoto e dello sconvolgimento.   Le persone che ci vogliono bene    hanno a loro  volta sbagliato, magari molto sbagliato,  ma  se poi si ravvedono e si ravvedono e si  ravvedono, allora  si può davvero  credere che si siano ravveduti.

Come un innamorato che viene da un passato turbolento e per nulla  promettente  ma che bussa alla nostra porta  in una sera d’inverno  portandoci  un dono;  noi non gli vogliamo dare fiducia   e non lo facciamo entrare.

Torna il secondo giorno  e non lo facciamo entrare.

Torna il terzo e sempre lo cacciamo via.

E così la stessa storia per un tempo inverosimile di cui si perde la conta.

Poi un giorno non preciso, esattamente come gli altri, l’innamorato torna, ci rinnova il suo dono e noi questa volta gli diciamo di sì.

Gli diciamo di sì  per premiare la sua costanza, perché consideriamo  che  una buona cosa  non meriti d’essere buttata via.

La famiglia è il luogo santo dove accadono i miracoli. Lo dico  nel senso profano del termine. Santo sta per privilegiato, specifico e benedetto. Il fatto è che famiglie non si nasce ma ci si costruisce. Le famiglie si scelgono, non  ce le troviamo impacchettate e scontate. Ma si scelgono nel cuore. Possono funzionare sono se stanno nel cuore.

Tutto il resto che sta fuori  di questo nodo assoluto è il puttanaio  che circonda ordinariamente  tutto e tutti.

Quando  sento parlare le persone  in genere   mi  sorprendo  sempre  della nostra  ripetuta   cecità. Alla mancanza di intelligenza  non ci si può fare (fortunatamente) l’abitudine.

Accade  infatti   che in genere ci si ferma  all’apparenza delle cose, e non ci si muove verso la visione della sostanza.

Prendiamo per esempio il nostro capoufficio ed i colleghi di lavoro, o il nostro dirigente ed i colleghi di lavoro, o i nostri parenti  con relativi affini, o i nostri amici  di  passaggio  e relativi  contingenti.

Sono tutti stati d’umanità quotidiani  dove sovrasta per lo più la legge  del tornaconto personale.

Alzi la mano  chi  cerca d’ impostare la propria giornata lavorativa o la propria giornata  familiare o la propria giornata  festiva e di divertimento secondo le banali   leggi   della spontaneità, dell’impegno e della  condivisione.

Immagino già le risposte di molti:  “Io considero solo i miei familiari, tutti gli altri sono estranei” oppure “Quello che gli altri fanno a me non vedo perché io non dovrei   fare loro” oppure “Ciò che conta è essere furbi  più degli altri perché così nessuno ti fotte” oppure “Perché dovrei impegnarmi  quando nessuno ha mai fatto nulla per me?” e così di seguito su questo passo…

Il mondo va di merda perché questi sono i nostri luoghi comuni. Consideriamo la famiglia  un luogo privilegiato e separato dal  resto della società e la società come  la discarica della nostra immondizia, ma non è nemmeno questa la verità, perché quello che noi ci dispensiamo di fare in società  ci ritorna contro nella famiglia la quale non è affatto il luogo privilegiato e “Perfetto”  che  si  ritiene considerare, ma solo il luogo dove insegniamo a noi stessi e ai nostri figli come fottere il prossimo.

La  famiglia  non sono nostro padre, nostra madre, i nostri fratelli o nostra moglie, nostro marito, i nostri figli…la famiglia sono le persone che ci scegliamo e che si dimostrano all’altezza del loro compito verso cui noi ci dimostriamo fedeli.

In altre parole la famiglia non è un contenitore fisso e stabile, ma mobile e modificabile.  E   in altre parole  lancio una freccia in favore delle famiglie allargate, quando queste stesse dimostrano di funzionare meglio di quelle  originarie.

Il problema che si aggiunge dentro questo periodo di grandi cambiamenti e di grandi sconvolgimenti,  è che  l’essere comune rischia  di  scambiare  le nuove opportunità   per  facili occasioni   in cui    fare quello che si crede.

I fautori del rigidismo nel nome di questo rischio reale  vorrebbero chiudere le nuove frontiere che invece avanzano coma falangi ben armate che mai nessuna dittatura sporca e crudele  potrà mai più fermare.

Tanto vale affrontarli,  i problemi, metterli tutti su di un tavolo  e pianificarli il meglio che si può.

La vera fortuna di questa  nuova  idea di famiglia vivente e in costruzione è che  il nucleo familiare può diventare una vera e propria comunità, un vero e proprio agglomerato di persone che si ritrovano ad essere unite perché si condividono gli stessi principi di onestà, di ricerca, di divertimento.

Dentro questa bellissima ricerca  che ho deciso di fare mia,  sta l’annullamento dei vecchi parametri di misura e la presa in considerazione dei nuovi.

La bellezza degli affetti è che si può amare un solo essere come uomo e come donna, ma si possono amare vari esseri  come amici e fratelli e compagni di viaggio. In un certo senso si diventa delle grandi madri o dei grandi padri  dove  i confini  del conosciuto e dello sconosciuto si assoggettano alle leggi della riconoscenza  e della fratellanza  universale.

Non  riesco a trovare un altro termine per definire la questione.

Fratellanza non nel senso religioso del termine, o meglio, non nel senso confessionale del termine,  ma nel senso  antropologico ed umanistico.

Il   “Siamo tutti fratelli”   è stata e continua spesso a venire fraintesa   come un’espressione buonista e facilona dove ci si può mettere dentro tutto e tutti.

Niente di più falso.

Questo motto può funzionare solo se  ognuno  dei componenti di questa ideale  compagnia  di fatto e in prima persona si assoggetta alle regole sopra citate e sopra descritte.

Si assoggetta nel senso che decide liberamente e  coscientemente  di farsi servitore della pace,  della capacità concreta di vivere l’uno accanto all’altro.

Come vedete il discorso si sta allargando in maniera esponenziale e arriva a toccare spazi  intergalattici  e assai complicati, in cui viene sapientemente messa in discussione la stessa idea di Dio, e quindi la stessa idea di cristianesimo nel nome della scienza sovrana.

In che misura l’uomo è un essere perfetto perchè a immagine di Dio e nello stesso tempo è un essere fallibile e potenzialmente  orribile perchè libero? In che misura ci sono varie idee di divinità, tutte da ritenersi discutibili,  ma una sola idea di scienza  la quale non dà adito a nessun dubbio, nel momento in cui però  si manifesta o si rende conosciuta? Serve di più all’uomo una scienza visibile che cammina alla velocità della tartaruga  o un’idea del Dio  che non c’è che quando si rivela  cammina  alla velocità della luce?

Qui per ora mi fermo, perdonatemi per la mia loquacità  e vi auguro una serena giornata.

Giovani all’assalto

 

 

 

Amo la giovinezza   e quello che rappresenta.

L’amo   non come condizione fisica e psicologica  ma come condizione spirituale.

Chi rimane giovane nonostante il passare degli anni,  rimane vivo, non nel senso che bisogna continuare ad avere vent’anni (sarebbe impossibile e neanche troppo interessante) ma nel senso  che la gioventù  è qualcosa che appartiene al cervello e non alla condizione fisica che inevitabilmente  “Invecchia”.

Non mi stancherò mai di ripeterlo.

La stessa giovinezza come pura  condizione anagrafica  non è nemmeno di per sè  particolarmente  convincente.  Da giovane  manca l’esperienza, manca  la maturità,  manca  il senso completo  dell’esistenza, tutte  doti che solo il tempo permette d’acquisire.

La vera virtù  di quest’età  è  il perfetto funzionamento  del corpo;  si è nelle migliori condizioni  per fare sport, per sopportare fatiche particolarmente impegnative,  per sottoporsi a  prove  che richiedono una lunga  resistenza.

Direi anche per fare figli,  quantomeno  dal punto di vista biologico.

La tendenza  ormai  condivisa di scegliere maternità e paternità anta  negli anni,  è un fenomeno moderno  che consegue sostanzialmente  allo sviluppo della medicina e quindi della scienza in senso lato.

Prima le maternità/paternità  si subivano, in parte in pesi differenti;  oggi  si programmano  e quindi  si è divenuti sempre più protagonisti anche in questo senso. Lo dimostrano alla grande il proliferare di coppie gay che scelgono di mettere su famiglia.

Di questa capacità programmatrice   se ne avvantaggia prioritariamente  il genitore, in secondo luogo in parte  anche   il figlio.

Tornassi indietro, rifarei la mia maternità  nell’età giovane che ho scelto,  ma  vorrei potere tornare madre con la testa di oggi, con il cuore di oggi, per dar quel valore aggiunto che mi è mancato a suo tempo.

Lo sviluppo psichico di una persona  è  qualcosa che   assolutamente supera il mutare delle condizioni fisiche.

Si può infatti fisicamente mutare assai  poco,   ma diventare con gli anni  assolutamente diversi  sotto un profilo interiore.

Lorenzo e  Olivia  del romanzo    IO e TE  sono rispettivamente un adolescente e una giovanissima  donna.

Della loro giovinezza  non conoscono nulla o assai poco;  ne sono assolutamente inconsapevoli.

Guardano agli adulti come se fossero dei vecchi,  probabilmente perché gli adulti  di cui si trovano circondati sono vecchi, vecchi nello spirito.

La loro reciproca condizione è rispettivamente agli opposti; Lorenzo  vorrebbe  essere già grande,  venire ritenuto già tale, ha fretta di crescere,  ma solo alle proprie condizioni; Olivia  vorrebbe  togliersi di dosso l’abito che si è trovata a portare a causa della sua stessa  giovinezza, che nel suo caso specifico non le ha portato altro che guai e dispiaceri.

Lorenzo  vorrebbe proteggersi dai grandi, di cui diffida, e non trova interessanti i suoi coetanei che sono estremamente meno “grandi” di lui, meno arguti, meno  curiosi.

Olivia  vorrebbe  trovare  un compagno   che sappia offrirle   una proposta di vera vita.

Una casa in campagna, dei cavalli, la pace della natura, delle abitudini solide e precise…

Entrambi sono stati scottati dalla separazione dei propri genitori.

Per Olivia un padre che lascia la moglie per un’altra donna; per  Lorenzo una madre  che   non gli dà fiducia, che gli sta troppo addosso,  che non gli lascia libertà.

I due fratelli per un certo periodo di tempo imparano a conoscersi, ma solo quando si  troveranno riuniti  dentro  il silenzio e l’assoluto vuoto  di una cantina, scopriranno  e si riveleranno reciprocamente  i propri pensieri.

Solo quando staranno l’uno davanti all’altro,  senza più la presenza fuorviante e condizionante dell’adulto, inteso come sinonimo di rigidità, di menzogna, di immobilità e  di  diffidenza, riusciranno ad aprirsi, ad essere se stessi.

In questo senso amo la giovinezza, in quanto immediata e spontanea espressione di apertura, di accoglienza e di  possibilismo.

Ci sono giovani, e tornerò sempre a ripeterlo,  già vecchi e mai stati tali,  così come ci sono adulti  che diventano giovani invecchiando. E’ tutta una questione di  far coincidere e quindi conciliare  le linee del tempo con le linee dei sentimenti e le azioni con le intenzioni.

Intendere e dunque agire di conseguenza è una prerogativa adulta, che esprime raziocinio e controllo; sentire e dunque permettere  è una prerogativa  giovane, che profuma di  rinnovamento.

Il coincidere di queste due realtà, fa essere la perfezione.

La perfezione viene raggiunta dopo un periodo indefinito e sconcertante  di tentativi e di prove, nonché di sbagli.

Gli sbagli  possono avere origine o nelle nostre stesse incapacità o nelle incapacità e mancanze altrui; spesso queste incapacità convivono, ma bisogna comprendere l’ordine  in cui esse si susseguono e si determinano. Bisogna comprenderne l’ordine per potere rimediare e per sapere a chi dobbiamo andare a chiedere spiegazioni.

La stessa perfezione che si riesce a raggiungere  dopo infinita fatica,  non è un traguardo fisso e immobile.

Rimane   essa stessa sottoposta  alla legge del mutamento e del rinnovamento, oltre che della ripetuta fedeltà a qualcosa  che si è deciso di fare proprio.

Vivere la vita è il gioco più  entusiasmante e rischioso  che un buon giocatore potrebbe decidere di intraprendere.

Dunque viviamola  sempre, qualunque cosa ci possa nel frattempo succedere.

Nel nome della giovinezza che non deve venire uccisa, che deve trovarsi, riconoscersi e sbocciare, in qualunque momento questo possa divenire possibile.

AMERICA, OGGI COME IERI

 

Usa 2012/ Sui giornali americani il "Trionfo di Obama"

 

 

 

 

IO e TE

Io e te, Bertolucci e la solitudine della gioventù moderna.

trailer

LUI è un ragazzo di quattordici anni, il viso pieno di brufoli, un folto capo castano , due occhi azzurrissimi, e un poco narciso.

LEI  è la sorellastra, stesso padre ma madre diversa. Più grande, all’incirca di dieci anni,  una lunga capigliatura bionda,  parecchio tossica, piena di problemi e di altrettanto talento…

Non si frequentano, da tempo vivono separati, due vite diverse e strappate, ma li fa rincontrare il destino, il caso, che per interi sette giorni   li  “obbligherà”  a convivere dentro il disordine di una cantina. Una cantina a dire il vero ben fornita di tutto il necessario: un gabinetto, un lavandino, il calore emanato dai tubi della caldaia, una branda, un divano, un armadio pieno  di coperte, una piccola finestra, la presa per la luce, e una miriade di altre cose lì accumulate nel tempo…

Lorenzo   vuole isolarsi  in questo buco  per  vivere il brivido di poter scegliere, e fa credere alla madre di partire con la scuola per la settimana  bianca;  organizza al suo posto   la ritirata  nelle stanze segrete dei sotterranei, dietro  meticoloso  acquisto  di merendine,  panini e bibite…

Olivia  il suo bisogno  di   brividi li ha buttati al macero il giorno che ha cominciato a drogarsi; promettente fotografa, era stata  allontanata dalla nuova moglie del padre  alla quale aveva finito  per tirare una pietra  in un momento d’ incontenibile  odio.

Mentre che  il giovane adolescente  si trova  ad organizzarsi il suo nuovo tempo, tra  momenti di lettura e di totale abbandono ai propri pensieri, sgravatosi  da ogni impegno e da ogni dovere,  la giovane donna si catapulta  nella cantina  alla disperata ricerca di uno  scatolone perduto. Cerca un vecchio braccialetto  d’oro  da poter vendere e poter rimediare qualche soldo per bucarsi.

Trovatosi scoperto,  decide  di stare al gioco, finge di stare lì per pura circostanza,  ma prima di lasciarla andare via le fa promettere  di non dire niente a nessuno.

Lei non l’ha mai visto, per tutti lui è in viaggio con la scuola e non dentro quella  cantina.

Tutto potrebbe tornare nella “normalità” di quanto programmato se non fosse che per i tossici non c’è niente di normale. Olivia  non sa dove passare la notte e chiede ospitalità al fratellastro,  che all’inizio non ne vorrebbe sapere,   ma che alla fine  si deve convincere dell’assoluta  impellenza   d’accoglierla nel  suo nascondiglio.

Ecco  che   inizia  il vero viaggio, la vera occasione d’essere liberi in maniera utile e positiva e non solo nel senso stupido   e vacuo   che tutti noi umani ben conosciamo o abbiamo conosciuto …

Il  viaggio è la scoperta di noi stessi attraverso gli occhi dell’altro;  non vorremmo  starci vicini, non ce ne importerebbe,  il nostro programma sarebbe un altro, ognuno per sè in culo al mondo, contro chi ci vuole male, contro chi non capisce, contro chi vorrebbe sempre decidere per noi, contro chi ci crede incapaci  e privi di proprie  decisioni…ma  improvvisamente diventa qualcosa   che mentre nell’apparenza  sembra sconvolgerci i piani , in verità ci aiuterà a raggiungere lo scopo.

Lorenzo   impara il coraggio e la bellezza  d’essere se stessi   in mezzo agli altri  attraverso le parole  dirette  dell’  imprevista  compagna di stanza, che durante la convivenza   prima l’ osserva, lo critica, lo insulta quando c’è da insultarlo,  lo sorregge nel suo gioco, lo intima,  mentre   l’informa  delle   vicende del passato a lui rimaste celate perché trattato sempre come un bambino. Poi  se ne intenerisce, scopre il piacere della sua presenza.

Olivia  ritrova  il coraggio e la bellezza d’essere se stessa attraverso l’istintualità  ed il candore  dell’insperato vicino di letto, che  divenuto spettatore  inconsapevole  del dolore di chi è caduto nella vita,  finisce per rivolgersi a lei   con parole di compassione  e d’aiuto  sincero.

Lorenzo  scopre di voler   bene a questa sua mezza sorella  più grande,  che si vomita addosso, che urla al mondo, tra gli spasimi dell’astinenza obbligata, tutta la sua disperata  voglia  di vivere, fino al punto di farle severamente  promettere di non drogarsi mai più per nessuna ragione al mondo…

Olivia  scopre di  voler  bene a questo suo più piccolo mezzo fratello,  che vede solitario e perso, che percepisce  intrappolato   nelle   mille incertezze dell’adolescenza, e gli fa promettere  di non avere più paura della vita  e delle sue prove,  perché è normale fare e sbagliare, che  l’importante è  non tirarsi indietro, non mettersi  nell’angolo, non farsi autogol…e dunque  mai più fughe  dentro i sotterranei  di un palazzo  pieno di luce…

E poi lo spettatore scopre che ci può essere più luce nel buio  di uno scantinato, e che ci può essere più bellezza nel vomito di una ragazza  che cerca di tornare con tutte le proprie forze alla normalità, e che ci può essere più speranza negli occhi chiari   di un ragazzo  che li rappresenta tutti…

Questo film ci fa tornare come bambini. Ci fa guardare le cose con gli occhi dei suoi protagonisti.

Bertolucci fa centro, come sempre. Convince la sua magistrale regia, convincono i due giovanissimi attori, convince la trama della storia come sapientemente raccontata dall’autore…

E convince l’abbraccio d’amore  fraterno  di Olivia verso Lorenzo  e di Lorenzo  verso Olivia…

E’ un incontro  che è la stretta ferrea  priva di  inutili parole   di chi ci porge la propria mano  per darcene un’altra alla prima occasione.

Contro chi ha sbagliato, contro chi ci ha fatto del male, contro chi un giorno forse ci chiederà scusa…

IO e TE  è la capacità  priva di inibizioni inutili e sciocche  di dirsi in faccia quello che siamo e pensiamo e sentiamo.

Sono due giovani che ce lo insegnano, con la loro totale o scarsa esperienza della vita, ma già segnati dagli errori degli adulti (oltre che dei propri).

Il fatto non sussiste

Nichi Vendola, prima dell'assoluzione, si reca in tribunale con il suo compagno

Non tutta la politica è sporca…