L’ idea di persona

a. L’idea di persona ( definizione e parti della persona-  il bisogno del personalismo- trascendenza immanente e trascendenza storica- le ragioni dell’ateismo- il fallimento dell’hegelismo- la superiorità dell’amore su tutto-  la conversione al Bene-  uguaglianza/fratellanza/libertà come cardini di un dialogo)

L’idea di persona che un filosofo possiede o non possiede è il fondamento più o meno consapevole e più o meno dichiarato del suo pensiero. Dopo l’illusione dell’umanesimo, che ha dovuto fare i conti con la realpolitick, dopo i fasti del razionalismo, che ha fatto illudere l’uomo padrone del suo destino, dopo il fallimento della politica intesa  come sistema di pensiero autonomo ed infallibile, dopo il nichilismo nietzscheano, il disincanto post-moderno e la perdita dell’innocenza dell’intera umanità, forse non rimane da un punto di vista ermeneutico, se si vuole procedere alla ricerca della verità, che riprendere l’idea di persona e di esistenza fondata sulla persona.
Questo vale soprattutto in un sistema di vita dove molto di ciò di cui ci si trova ad occuparsi non ha più ritmi e contenuti umani; ciò che rimane al controllo del singolo, dell’individuo , che non è ancora di per sé una persona tra persone, ma un’ entità, è l’idea che coltiva di se stesso, e dunque, solo se definita e posseduta, diventa “l’idea di persona”.

Se persone non si nasce ma ci si costruisce e solo attraverso la volontà di rispecchiarsi tali, quando si può affermare di volere perseguire l’idealità di un personalismo?
Solo quando in questo personalismo si sono inclusi i concetti di unicità, universalità e divinità dell’uomo in quanto creatura di Dio. Intorno a questi tre concetti si tornerà molto e di continuo perché sono i generatori di molteplicità che non perdono il loro universalismo a causa della loro radice intangibile.

Dall’unicità o assolutezza conseguono l’originalità, la creatività e l’inconoscibilità di ogni essere; dall’universalità o generalità conseguono l’uguaglianza, la dignità e la capacità di condividere di ogni essere; dalla divinità o trascendenza conseguono la libertà, la fratellanza e l’eternità di ogni essere. Solo la terza caratteristica partecipa della trascendenza, anzi, vi è strettamente legata; le due restanti sono immanenti. Da queste nove qualità di sintesi si possono ricavare per ognuna tre ulteriori qualità analitiche,  per cui si avrebbe che: l’uomo è originale perché è generato dall’Essere, partecipa dell’Essere e rimane legato all’Essere; è creativo perché si riproduce, crea opere d’arte ed è egli stesso un’opera d’arte vivente; è misterioso perché deve conoscersi, la sua conoscenza dura tutta la vita e solo all’Essere rimane conosciuto in pienezza fin dall’inizio; è uguale perché ha gli stessi difetti, le stesse virtù  ed è costituito di anima più corpo, ossia da una dialettica comune; è dignitoso perché ha gli stessi bisogni, ha gli stessi diritti, ha gli stessi doveri; è capace di identificarsi perché riesce a socializzare, si realizza con l’aiuto degli altri e non è fatto per stare solo; è libero in quanto lo è nel corpo, nello spirito e dalla morte (nel senso che con la morte non finisce la vita); è fratello all’altro perché ama se stesso, ama l’altro, ama l’Essere; è eterno perché risorge nello spirito, risorge nel corpo, ritorna all’eternità da dove proviene.

Questi stessi punti analitici possono essere distinti in altri sottopunti che vanno a definire sempre più nello specifico l’essere ed il suo mondo, ma così procedendo ci si allontanerebbe dalla strada maestra, quella portante, a cui tutto si ricollega, a cui tutto va ricondotto. Bisogna sì occuparsi dei singoli dati, delle piccole cose, senza comunque perdere l’aspetto dominante, il generatore di ogni brulichio, di ogni tessera di tela, l’idea madre, la fonte, la luce che tutto illumina.

Tutti questi temi sono molto noti al pensiero moderno, hanno una radice antica, ma spesso alcuni di loro rimangono taciuti e dimenticati; il mondo postmoderno fatto di tecnologia e d’ efficienza, d’esteriorità e di superficialità, disdegna in linea di massima d’occuparsi della persona, perché risulta un impegno forse troppo serio ed oneroso, oltre che poco redditizio.
Il filosofo etico crede, per professione e per natura, che valga sempre la pena di occuparsi della profondità, che non è sinonimo di noia o di pedanteria, ovviamente se la filosofia convince, riesce a toccare gli spiriti dei suoi ascoltatori. Quando poi si arriva a comprendere che dalla capacità di fare filosofia, di fare pensiero, può dipendere la nostra stessa salvezza, là dove il pensiero genera scelte, comportamenti e dunque realtà soggettive ed oggettive, allora la filosofia può diventare di grande interesse per tutti, soprattutto per i giovani che hanno tutta l’esistenza su cui scommettere, che sono il futuro e la possibilità di cambiamento.

In definitiva l’uomo è unico perché è assolutamente irripetibile; è universale, perché condivide con tutti gli altri uomini lo stesso destino e la stessa natura; è divino, perché è figlio di Dio, chiunque sia, ovunque sia, in qualunque tempo sia, al di là del suo credo religioso, per la semplice ragione che il primo uomo non si è fatto da sé e da qualcosa di superiore deve pure provenire come la stessa natura, lo stesso universo provengono dallo stesso principio. L’irripetibilità di ogni uomo è teoricamente accettata da ogni scuola psicologica di pensiero; anche l’universalità è condivisa da qualunque teoria, bene inteso considerando implicite tutte le dovute differenziazioni antropologiche, sociologiche, politiche, culturali e religiose del caso. Per concludere anche la divinità della natura umana è condivisa, nonostante rimangono discordanze e disaccordi generati soprattutto  da una cattiva intesa sulle parole. Solo la scuola di pensiero atea non si riconosce dentro quest’ idea di una provenienza divina dell’uomo e non lo si mette in dubbio.
Se però si vuole eliminare l’idea di Signore del mondo , come accade al marxismo o all’ateismo in genere, ecco che l’uomo rimane l’unico essere evoluto sulla terra, candidato a potersi sostituire alla tradizionale idea di Dio.
Dio non esisterebbe, ma l’uomo ne farebbe le veci, ne svolgerebbe le funzioni in tutto e per tutto; dunque anche l’ateismo condivide una sua idea tutta immanente di divinità. La divinità dell’ateismo è chiamata in vari modi: umanesimo, antropologismo, dottrina sociale, fede politica, laicismo, psicanalisi, ed ognuna di queste definizioni tende a fare dell’uomo il dio di se stesso. Sentirsi  dio della vita e della morte significa assumersi un’enorme responsabilità o molto semplicemente dichiarare apertamente e legittimamente  la propria incapacità a credere.

In merito all’ateismo, esisterebbe un non credere accettabile ed esisterebbe un non credere  non accettabile: quello sopra citato è l’ateismo accettabile; l’ateismo più pericoloso perché perverso e mascherato è quello perpetrato da ogni forma di terrorismo,   da ogni forma di  estremismo e da ogni forma di indifferentismo.

In questo capitolo si intende parlare solo dell’ateismo  cosiddetto  dal volto umano.

La prima forma di divinità si basa sull’idea di trascendenza come Presenza compiuta innaturale infallibile; la seconda forma si basa sull’idea di immanenza come presenza in divenire umana naturale fallibile . Le tre caratteristiche sintetiche primarie che si riferiscono all’idea di persona sono ineliminabili e non scambiabili nell’ordine; non si possono eliminare perché la definiscono; devono stare nell’ordine di successione, partendo dal minore verso il maggiore.
Al primo grado l’unicità, momento in cui l’io prende coscienza di se stesso; al secondo grado l’universalità, momento in cui l’io si apre agli altri , solo dopo avere preso coscienza di se stesso e continuando la conoscenza di sé attraverso la conoscenza degli altri; al terzo grado la divinità, momento in cui l’io prende coscienza dell’infinito. Il genere di infinito nel pensiero ateo non può che continuare a conservare un carattere storico, contingente, essendo la storia temporale l’unica forma di infinità riconosciuta, anche dopo l’avvento di Gesù, unico essere per un credente cristiano contemporaneamente storico e in sé divino della storia del pensiero e dei fatti. Hegel, lettore della storia e non di eventi spirituali non affermò che è l’uomo che deve andare al cielo, ma ha fatto osservare che è il cielo che è venuto all’uomo, per mostrarsi nella sua spiritualità fallibile, dandoci una lezione significativa e lasciandoci una pesante eredità.

Il punto è che lo spirito, se spirito, non può essere fallibile e che l’uomo finito non può né essere né diventare infallibile. Dopo la venuta del cielo nel mondo deve succedere il ritorno al cielo da parte dell’uomo. Tanto Dio si è abbassato, tanto l’uomo si può elevare, con Dio che lo guida. La realtà dei fatti dopo Hegel suggerisce che questo messaggio drammatico di un bisogno da parte degli uomini di ritornare al cielo non è stato compreso dal filosofo della fenomenologia dello spirito nella sua chiave di lettura religiosa, ascensionale, irrazionale. Non a caso si definisce in primis un filosofo e non un credente; del resto non si può essere filosofi e mettersi a vaneggiare con leggerezza su certi paradisi perduti o su giardini che starebbero nell’attesa del nostro ritorno.

Ma un filosofo, per essere tale, deve attenersi alla sola ragione e dunque lasciare da parte la speranza, i sogni, le aspettative apparentemente immotivate, o deve conservare da filosofo tutta la propria complessa umanità? Chi può dire cosa è motivato e cosa non lo è; qual è il confine netto che separa i due giudizi? E che cos’è la ragione se non uno strumento di comprensione limitato, come lo è tutto dell’uomo? Tutto deve, secondo la conoscenza razionale, avere il suo fondamento logico, politico, quantitativo, deve tenere conto dell’interesse maggiore, del minor male possibile, fare spazio alla ragione dello stato, del potere civile, della storia che non si vuole precipitare nel caos, nell’anarchia, nella barbarie e nell’oscurantismo. Questo è alla resa dei conti l’hegelismo, un pensiero pratico, realistico, oggettivo, che crede di potere dirigere a proprio volere l’avvenire degli eventi nel nome del “si doveva fare”; chi sarebbe allora il vero illusionista?

Ci si potrebbe credere senza insormontabili problemi fino a quando non si andasse a toccare nei fatti la sfera del privato, dell’interiorità, la sfera della persona. Allora inizia la tragedia, che consiste nel dovere fare delle scelte ingloriose, che non riescono ad evitare la semina di vittime , vittime che hanno un nome, una data di nascita, e che l’avranno anche di morte; vittime che non sono numeri, date, statistiche; vittime che sono catastrofi inaccettabili senza il soccorso della fede, e la fede non è ragione ma speranza; l’essere hegeliani dunque, ossia uomini di questo mondo, non spiega perché continuano ad esistere in qualche modo uomini che rimangono attaccati al pensiero religioso, per un sottile ma ferreo filo, dopo che nel mondo si è posto dominante il vivere come se Dio non ci fosse. Quello che il pensiero di Hegel butta fuori dalla porta, se lo ritrova in casa rientrato dalla finestra. In teoria l’uomo hegeliano sa vivere con i suoi morti, fino a che ci riesce; l’uomo antihegeliano non ci riesce proprio. Piuttosto arriva a maledire la vita, piuttosto impazzisce, piuttosto si vende alla parte peggiore di sé passando così nella schiera dei maledetti, ma di rimanere un hegeliano rassegnato alla morte non ne vuole sentire ragione.

Sono questi per carattere uomini fortemente passionali, che insieme alla fredda logica considerano anche il valore del sentimento, l’altra metà dell’essere, vivendolo come momento che rischia di diventare destabilizzante; non si deve arrivare a soccomberlo con un disegno che ha la pretesa di pianificare l’umanità ma ognuno è chiamato al suo giusto equilibrio. L’intervento dell’uomo su un suo simile o su stesso è in grado di privare la persona della sua unicità e/o della sua universalità, privandola o mutilandola così della sua originalità, creatività, misteriosità, uguaglianza, dignità e capacità di condividere; tuttavia l’intervento dell’uomo non potrà mai privare un altro individuo, chiunque esso sia, della sua divinità, perché la divinità è un carattere trascendente la cui manovrabilità non è nel potere dell’uomo , per quanto costui lo privi in sostanza della libertà e/o della vita, così che si può morire tra orrori immani ma non perdere “l’occhio di Dio che guarda” e farà risorgere queste vittime dal tempo.

Primo punto da tenere fisso in questo discorso: la vita non è il bene più prezioso; se lo fosse questo mondo verrebbe visto come una spazzatura vivente o come un tradimento subito  da tutte quelle persone che si sono trovate negate alla vita.
Gesù morto in croce non è stato privato della sua divinità nell’essere stato ucciso, tutt’altro; proprio nell’atto d’immolarsi, Cristo si è dimostrato, dopo la morte e attraverso la morte, Signore dello stesso mondo. Un attimo prima di morire era ancora solo un uomo e prima della risurrezione non sarebbe stato possibile riconoscerlo Figlio di Dio. Quando si parla di superamento della morte ovviamente s’intende la morte inevitabile, quella che ci tocca di subire, giammai quella di cui è l’uomo stesso l’artefice.

Per essere sinceri, nemmeno dopo il proprio sacrificio questa sua divinità è divenuta tanto certa, perché il nazareno non risorge davanti al mondo intero che lo vede ascendere al cielo con i suoi occhi; si mostra già risorto nell’istante successivo la risurrezione solo davanti a un gruppo di soldati romani che stavano a guardia del suo sepolcro e solo successivamente davanti ai pochi fortunati che lo “rivedranno” vivo prima della sua ascensione in cielo. Ecco perché della risurrezione si può e si deve parlare con fatica (pur che se ne parli), quasi come se venisse sussurrata, essendo che appartiene a un livello di vita totalmente spirituale e non più terreno, mentre il mondo è ancora in una fase di piena terrestrità.

Se il mondo tutto avesse assistito a questo evento, il mondo sarebbe finito quel giorno, ma il disegno di Dio imperscrutabile ha in serbo per noi cose misteriose. Tra i militari romani, solo il soldato che lo aveva trafitto nel costato per accertarsi che fosse morto, è disposto a proclamare che il figlio di Maria non sta più nella tomba perché è risorto, ma per questa stessa ragione il potere l’isola tra i pazzi nell’attesa della sua consumazione. Il suo destino sarà poi di salvarsi e di convertirsi al cristianesimo, divenendo il primo soldato romano pagano della storia a farsi credente. E dunque ecco le ragioni semplicissime dell’ateismo; se non vedo non credo, se non tocco non credo. E se poi anche vedo e tocco, posso continuare a non credere perché non sono obbligato a farlo. Dio non obbliga. L’uomo rimane libero di conservare i suoi dubbi perché anche vedendo il cuore può rimanere chiuso, impermeabile, inaccessibile: qui si parla infatti degli occhi dell’anima.
Noi uomini di oggi e di domani non eravamo nemmeno là a vedere il Cristo risorgere, dunque non ci crediamo. Perché dovremmo crederci? Abbiamo tutte le ragioni di dubitare; d’accordo, abbiamo testimoni che sostengono il contrario, ma che ne sappiamo noi, di come si svolsero realmente i fatti? Dovremmo incontrarlo anche noi, il risorto dalla morte, e parlargli, e allora crederemmo. Forse. Per convincere i suoi discepoli della propria risurrezione, il Signore è obbligato a mostrarsi , risorto dopo la morte; e allora fornisce a quel piccolo gruppo d’umanità attonita una prova della sua rinascita.

A dire il vero per primo si mostra a Maddalena, la peccatrice, quasi a volerla onorare di qualcosa di speciale contraccambiandola del suo amore redento che era stato assoluto; l’amore di questa donna per Gesù è secondo solo dopo l’amore della madre, non certo per ricalcare il ben ridicolo primato di mammismo che contraddistingue il nostro paese, ma perché la madonna rientra in un contesto del tutto unico ed irripetibile essendo oltre che madre di Gesù, anche madre di tutti e lei stessa figlia del suo stesso figlio. L’amore di una vera madre è sempre qualcosa a parte, di perfetto, e questo vale in modo speciale per Maria, madre per eccellenza, unico essere umano concepito senza peccato e investito contemporaneamente di due ruoli.

L’amore di Maddalena per Gesù invece non è un amore materno, ma è il senso totale di gratitudine di chi avendo smesso di sperare si ritrova sorprendentemente iniziata alla luce, ossia è un sentimento che naufragato nel buio assoluto della disperazione approda alla speranza, formatosi in una valle chiusa e priva di luce inizia ad intravedere dei barlumi, dei sentieri; è l’amore di chi ha perso ogni cosa, non si aspetta più nulla, ma invece si ritrova tutto. Maddalena assurge a simbolo del peccatore che si converte al bene ed alla gioia dopo avere toccato il fondo della disperazione ed è per questo tra le persone più amate in assoluto da Gesù; Maddalena scopre perché amare, comprende la forza imperiosa dell’amore, ne può descrivere l’odore, l’aspetto, il suono, il passo, la foggia, il suo cuore da quasi spento diventa un organo nel fiore della sua capacità motoria; l’affetto che Gesù contraccambia a Maddalena è simile all’amore del padre che canta di gioia nel vedere tornare il figlio pentito, tanto che nemmeno vuol sentire il figlio chiedergli perdono; è tale la sua incontenibile felicità, è tale la sua contentezza nel saperlo salvo e non più smarrito, che tutto il male patito in un solo istante non conta più nulla, assolutamente meno di niente.

Così è l’atteggiamento di Gesù davanti alla peccatrice pentita che differisce dal figlio ritrovato solo perché Maddalena un padre vero non lo aveva mai avuto; questa donna è la figlia che si era persa perché nessuno le aveva mai detto “Guarda che esiste un amore che non tradisce”; la fede scoperta “per un disegno divino” di questa giovane potrebbe anche rievocare per certi aspetti l’immagine di Eva “cacciata” dal Paradiso per avere scelto “per un disegno in parte diabolico” la libertà (se stessa senza Dio) all’obbedienza inconsapevole (l’Altro che sa quello che è buono per me);

Maddalena è il ritorno immaginario di Eva pentita che dice al Padre che non aveva compreso d’avere, queste parole: “Non m’interessa più la libertà, voglio solo amarti, solo amarti fino alla fine del tempo; che me ne faccio della libertà senza l’amore? Ho cercato l’amore tra gli uomini ma loro sono mortali, come me, anche loro sbagliano come ho sbagliato io. Tu invece non sbagli mai, sei l’amore perfetto, mi avevi anche avvisato del pericolo che correvo e non ti ho ascoltato; adesso l’ho capito, solo adesso ho capito che il tuo amore è tale da essere vero. Il mio bene oggi vuole essere simile al tuo tanto che con te sono pronta a finire i miei giorni nel mondo e verrei fino all’inferno, se tu me lo chiedessi, perché so che dove sei tu non ci può essere inferno.Ti chiedo dal profondo del mio cuore perdono. Tu sei la completa felicità.”

Ammissione senza condizioni, remissione senza scusanti, chiarezza di idee che non lascia spazio a nessun dubbio, non più. Esattamente come la conversione di Saulo, improvvisa e totale, disarmante e incondizionata, che cambia la visione del mondo, cambia il bisogno di amore e di verità degli uomini attraverso un fuori programma, un imprevisto non cercato, non voluto, non calcolato. Gesù trova Maddalena abbandonata e morente e ne ha compassione; Gesù trova Saulo prigioniero della propria presunzione sul punto di perdersi per sempre e ne ha compassione; Maddalena che di Gesù ancora non sa nulla, Saulo che di Gesù sa già molto, ma non quello che serve; decide di farli propri, decide di convertirli, decide di trasformarli in testimoni della fede; nulla, davvero nulla è impossibile a chi può tutto nel momento in cui l’essere si fa creta nelle mani del suo pastaio. Mentre uomini persi si ritrovano senza saperlo salvi, uomini che si ritengono salvi sono di fatto senza saperlo già preclusi da sempre alla comprensione dell’amore.

Su questo tema il Vangelo riporta la parabola del figliol prodigo già in parte ricordata: ci sono due fratelli, uno maggiore ed ubbidiente, l’altro giovane e scapestrato; quello giovane decide di prendersi l’eredità e di andare libero per il mondo mentre il maggiore lo guarda partire biasimando la scelta del fratello di andarsene, pensando tra sé: “Che stupido, dove crede di andare? Si pentirà e sarà la sua rovina”. Da quel giorno il padre addolorato della partenza del figlio, trasforma la sua vita nell’ attesa del suo ritorno; ecco che dopo diverso tempo il giovane torna, distrutto e pentito, sporco e indigente, irriconoscibile e pronto a umiliarsi davanti al vecchio genitore, che invece non gli dà nemmeno il tempo di chiedere perdono, perché lo accoglie subito straboccante di felicità come un principe tornato nella sua reggia.

Quando il fratello buono vede il padre fare festa per il fratello cattivo che ritornato in sé torna a casa, non comprende, non approva, rimane irritato da tutta quella generosità ai suoi occhi insensata; il suo giudizio di condanna per entrambi è senza esitazioni. Non comprende che il suo amore per il padre era più paragonabile a quello che un servo nutre per il suo padrone che a quello che un figlio ha per l’essere che gli ha dato la vita e che lo ha cresciuto; tale era invece l’amore del vecchio (Dio padre) verso i suoi amatissimi figli, tutti, nessuno escluso, considerati nel cuore come principi degni di ogni considerazione, di ogni delicatezza e di ogni perdono.

nb:  questo capitolo apre i punti  a-b-c-d-e  della prima parte di questo libro

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