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SMAU, SCUOLA E NUOVE TECNOLOGIE DIDATTICHE
Fenomenologia di un sentimento, fenomenologia di un mestiere
Con questo articolo vorrei riprendere il tema dell’analisi dei sentimenti, tra cui in particolare mi rivolgo al sentimento per eccellenza, il sentimento amoroso della coppia, inteso come momento di incontro con l’altro, di esaltazione della mescolanza, di perdita del sé, di riflessione del sé e dell’altro, di consapevolezza e accettazione del reale, di cambiamento continuo metafisico e fisico, di comprensione del tempo e di progettazione del futuro, secondariamente annesso all’importanza e all’arte dell’insegnamento.
Sono quelle sopra citate le complesse fasi che interessano ed accompagnano ogni fenomeno di innamoramento quando per innamoramento si intende l’incontro di due persone che si rivelano e si scoprono essere fatte l’una per l’altra.
Per deduzione a questo principio cardine ed universale che riguarda il sentimento amoroso, non può essere detto amore tutto quello che fuoriesce da questo schema, da questa griglia, da questo puntiglioso tracciato.
Possiamo ben comprendere perché migliaia e migliaia di rapporti finiscono anche dopo brevissimo tempo, o anche dopo un lunghissimo tempo, o finiscono nonostante eccellenti premesse, o non riescono a decollare nonostante eccellenti condizioni, o ancora, non si evolvono come dovrebbero evolversi, cadendo in forme di pseudo amore, dove la coppia è solo apparenza più che sostanza, o dove la coppia è compromesso, o convenienza, o ragion di stato, o abitudine, o incapacità all’esercizio della verità. O infine resistono e si rinsaldano tenacemente nonostante prove innumerevoli e di lungo percorso…
Ecco la prima condizione che il sentimento amoroso incontra e richiede: il suo essere vero, il suo essere assoluto, il suo aspirare alla bellezza, il tendere al miglioramento continuo, il suo volersi proteggere da ogni possibile contaminazione, il suo sapersi donare dentro il cerchio e fuori del cerchio relazionale, il suo esigere chiarezza, il suo essere onesto e sincero, umile e modesto, giocondo e spensierato, geloso e fiducioso, gentile e coraggioso, intelligente e riflessivo.
Prima condizione dell’essere innamorato è dunque avere la possibilità, occasione, fortuna, contingenza che dir si voglia, di incontrare la persona giusta.
Ci si può chiedere con ragione come sia possibile riconoscere con certezza la persona che dovrebbe essere fatta per noi. Questa è la prima enorme difficoltà. Se si sbaglia questo preliminare, che oltretutto capita accidentalmente perché non può essere in alcun modo pianificato, si sbaglierà poi conseguentemente tutti i passaggi successivi.
Non sapere riconoscere la persona giusta, o non saperla scegliere, sono errori di una tale gravità ed imperdonabilità che vengono pagati con un prezzo altissimo, ben peggiore di qualunque perdita finanziaria, anche la più disastrosa, come di qualunque perdita d’immagine.
Forse questa sconfitta è meno visibile, è meno conclamata, è meno soppesata dal sistema sociale in cui ci troviamo immersi, ma vive ed impera nel tessuto interiore delle persone, dei singoli, degli individui, che a loro volta costituiscono la nostra società.
E’ come se noi fossimo calati in un contesto urbano o non urbano che tiene conto del nostro conto in banca, del nostro aspetto fisico, del nostro lavoro e della nostra rete relazionale, ma non tiene in minimo conto la nostra vita privata forse proprio perché privata e dunque appartenente alla sfera del non detto, del taciuto, del riservato.
Chiariamo allora subito in che senso il privato è privato e tale deve rimanere, e in che senso il pubblico è pubblico e deve essere funzionante al privato e viceversa.
L’essere, l’io, la persona, il singolo, come infine l’individuo, è fatto di questa mescolanza: ha una suo sentire interiore ed un suo essere calato nel mondo quotidiano che si interfacciano e non si scindono mai spontaneamente.
L’armonia, l’integrazione, l’equilibrio, la complementarità di queste due sfere che sono concentriche costituiscono il presupposto della felicità.
Che vuol dire che non basta la coppia a determinare la propria felicità, perché la coppia stessa vive nel sociale, vive nella pluralità del tutto, necessita del suo inserimento in tale sistema condiviso; ecco perché il privato, che tale deve rimanere, ha comunque un peso enorme per il benessere del pubblico.
Facciamo esempi concreti: abbiamo avuto un litigio o uno scontro con il proprio compagno, e diventiamo intolleranti o nervosi anche sul posto di lavoro con i propri colleghi o con chi avremo la sventura di incontrare.
Non che ci inventiamo occasioni di scontro, semplicemente reagiamo alle normali situazioni critiche che incontriamo nel modo peggiore, per il verso meno favorevole, con un atteggiamento di chiusura e di critica distruttiva o impietosa.
In condizioni psichiche e personali diverse certamente reagiremmo in modo differente.
Così come tutto il sistema pubblico si appoggia sulla consistenza del sistema privato, anche lo sviluppo del sapere e lo sviluppo del sociale si appoggiano sulla nostra personale capacità di costruire relazioni personali.
Da questo risaputo principio si può dedurre che se il sistema pubblico e sociale non funziona è perché non funziona il nostro sistema privato, ossia non funzionano i singoli che non sanno costruire le proprie vite in maniera funzionante, efficace e costruttivista.
Sorge spontanea la domanda: ma c’è un sapere, un corso di laurea, che insegni alla vita? Che insegni la vita? Abbiamo i corsi di psicologia, di sociologia, di filosofia, di teologia, ma non abbiamo corsi di studio della vita, della vita reale e quotidiana, che a sua volta è una mescolanza di tutti questi saperi.
Sarebbe interessante, perché no, che qualche università si interessasse di questo argomento; le domande oggetto di ricerca potrebbero essere molteplici, per esempio: perché gli uomini (nel senso delle persone) interrompono legami matrimoniali ormai consolidati nel tempo? Perché gli uomini amano avere relazioni extraconiugali? Perché gli uomini si sposano con estrema leggerezza o evitano il matrimonio come se fosse la peste? Perché i figli sono lo specchio parziale della coppia? Perché la società non difende e tutela adeguatamente la famiglia che è la sua perla più preziosa? Perché tra genitori e figli è sempre esistito il cosiddetto conflitto generazionale? Perché gli equilibri di coppia si raggiungono attraverso percorsi ad ostacoli che fuoriescono e si sottraggono ad ogni genere di giudizio definitivo?
Quanti argomenti, quanti aspetti, quanti angoli sconosciuti e misteriosi che potrebbero essere fonte di saperi estremamente utili e produttivi.
Vorrei collegare questo mio argomentare ad uno studio che sto facendo sul Dire la pratica all’interno di un eccellente studio di ricerca iniziato presso l’Università di Verona da giovani e meno giovani ricercatori che si vogliono occupare dell’arte dell’insegnamento, arte antica quanto sconosciuta nel senso di mai indagata come prassi.
Si è appena concluso il convegno intitolato a questo tema delle narrazioni didattiche il 12 novembre scorso; erano presenti in sala presso lo storico edificio di Via Cantarane le migliori eccellenze universiterie del settore internazionali e non, l’aula era gremita tanto che abbiamo dovuto cambiare la stanza per potere dare a tutti i presenti la possibilità di sedersi…(molti giovani studenti che forse un giorno saranno insegnanti migliori di come lo siamo stati noi nel passato anche grazie a questa preziosa risorsa aggiuntiva che la ricerca ha saputo mettere in campo nonostante la crisi e nonostante le cattive politiche finanziarie…)
I corsi di laurea hanno da che mondo e mondo una impostazione teoretica/astratta. Il saper fare, l’arte del creare, dell’improvvisare, dell’interagire nell’attimo e sull’attimo attraverso le ordinarie occasioni di vita, sono sempre state oggetto di silenzio e di disattenzione, per non dire di sminuimento.
L’insegnante fino a poco tempo fa è sempre stato colui che possiede il sapere delle parole intese nella loro concettualizzazione , che possiede il sapere dei contenuti oggettivi; dopo alcuni anni in cui si è dato spazio a valenti ricercatori e ricercatrici che hanno cominciato ad occuparsi del come, del verso chi e del perché si fa didattica (e non più del quando o del dove o del su che cosa…) si è scoperto che anche e soprattutto il mestiere di insegnante ha bisogno della sua prassi, cioè della sua narrazione delle pratiche didattiche.
Questi esperimenti d’aula anzichè di laboratorio vanno scritti, vanno osservati, vanno conservati, vanno documentati, esattamente come si farebbe con un problema di carattere prettamente scientifico. E naturalmente indagati con metodo scientifico, con rigore, con fedeltà, con attenzione verso l’altro, visto che qui si ha a che fare anche nella fase iniziale e non solo in quella finale con esseri umani, con soggetti viventi, con vite che pulsano e chiedono di continuare a pulsare migliorando la qualità della loro vita.
I medici hanno il racconto dei loro casi clinici, gli avvocati hanno il racconto dei loro casi giudiziari, l’architetto ha il racconto delle sue costruzioni architettoniche, tutti accedono normalmente agli archivi di loro competenza…solo per gli insegnanti si è sempre dato per assodato che avessero già acquisito in sé l’arte del saper insegnare, magari solo per avere fatto qualche settimana di stage sul campo, cosa assolutamente non vera e non certa, non precostituita e predata.
Questo volume, Dire la pratica, edito da Bruno Mondadori, è l’excursus di un team che ha saputo incontrarsi (qui non c’è la coppia ma c’è il gruppo), che ha saputo incontrare (qui non c’è la società genericamente intesa ma un tassello della società stessa, quella che riguarda nello specifico il mondo della formazione) , che ha saputo porsi delle domande utili e preziose a cui finalizzare la propria ricerca (come si insegna? Esiste un metodo valido sempre e comunque? Cosa varia e cosa non varia? Quanto conta la soggettività del docente?…), che ha voluto (sempre per riprendere il legame stretto tra sapere, volere e potere) essere un’occasione di aiuto e di sostegno ai docenti che ogni giorno si trovano a combattere sul campo come se andassero in trincea, più preoccupati loro malgrado e per loro mortificazione, di portare a casa la pelle che di portare a casa conquiste.
Se poi si pensa che queste conquiste non sono altro che il benessere psico-fisico, spirituale ed intellettivo i nostri figli, dei figli che nasceranno dai nostri , e così discorrendo, si può ben comprendere l’urgenza, la gravità, la sostanzialità, la vitalità ed il vitalismo di questa riflessione.
Mi riservo di riprendere questo tema ambivalente e strettamente legato a mio avviso, tra l’essere una persona felice e l’essere un buon insegnante, quando avrò acquisito maggiori elementi oggettivi e soggettivi per potere tornare sul tema.
Anch’io sono una neofita, anch’io sono una che è arrivata come molti altri per ultimo, per la mia gigantesca inesperienza forse non avrei nemmeno diritto di parola, ma è pur vero che se non ho una lunga esperienza come insegnante, ho però una lunga esperienza di vita vissuta sempre all’interno del sistema scuola e sempre all’interno del sistema società. Ovviamente non solo di vita vissuta, ma anche di vita metariflessa, condivisa, discussa, osservata…
Nel frattempo già in queste poche parole sono emersi, a mio modesto parere, spunti di riflessione con cui lascio il lettore a certe proprie valutazioni.
Hello Italia!
Hello world, oggi entro anch’io nel pianeta web…
Ciao carissimi, cominciava così, con questo saluto e con un’immagine di popolo in marcia la mia avventura quasi un anno fa nel mondo del web, ma da oggi cambio il titolo del mio blog; non più “La croce il tempo e la mente” ma invece “Il cuore il tempo e la mente”.
Le ragioni che mi hanno portato a questa modifica, che considerei conclusiva dopo i vari passaggi intermedi, sono semplici: nei vari post inseriti si è molto parlato di sentimenti, di passioni, di scelte, di impulsi, di pulsioni, oltre che di fede e di religione; di pari passo, ho sempre riferito il mondo religioso ad un universo singolare, intieriore, personale, che ben si concilia con la sfera del sentimento, delle scelte dei singoli e non dei gruppi. La mia idea di religione, ossia di croce, è sempre stata legata alla sfera privata dell’essere; non è credente chi manifesta con i riti e le cerimonie, quantomeno non prioritariamente e non essenzialmente; per me è religioso chi semplicemente ha Dio nel suo cuore, e dunque nel suo pensiero, e dunque nel suo agire. La parola croce però a mio avviso farebbe più pensare a un pensiero crociato, che si crede investito di verità indiscutibili e certe, e mi rendo conto che rimane un termine non adatto, non consono allo spirito molto meno assolutista di questo mio discorrere con chi si dovesse trovare ad incrociarmi nella babilonia della rete.
Più adatta la parola cuore, parola anch’essa legata alla fede e dunque alla croce (si crede con il cuore e solo con il cuore, non basta il cervello), consapevole del fatto che ora il rischio del blog è di essere scambiato per un luogo dove si dà spazio allo sterile sentimentalismo; lungi da me questa orribile caduta, poiché tanto il rigido dogma di chi si crede nel giusto solo perchè abbraccia una bandiera prestigiosa che qualcuno gli ha illustrato e che viene accolta senza una reale adesione, quanto il becero sentimentalismo di chi strimpella melodie asfittiche e posticce, sono i due terribili nemici da evitarsi, se si vuole cercare la verità, se si vuole capire, se si vuole sapere partecipare al gioco della vita.
Anche le ragioni che mi hanno portato ad aggiungere la parola mente al titolo scorso “La croce e il tempo” sono assai semplici, l’ho anche implicitamente spiegato nei post dove parlavo appunto della mente attraverso l’elogio della psicanalisi: per dirla tutta, all’inizio, ossia il primo novembre del 2009, quando ho inserito il primo articolo in blogspot di google, il sito si chiamava “La lanterna di Socrate” in omaggio alla filosofia e in onore a Socrate, che nella mia concezione filosofica individuo come il padre del pensiero moderno.
Dopo soli cinque giorni ho scoperto il mondo di wordpress e l’ho ritenuto subito più idoneo alle mie esigenze di scrittura, più minimalista, più essenziale, passando così ad una grafica forse meno ampia, con minori effetti speciali, con minore disponibilità di widget (sob sob…qualcuno in più non guasterebbe!), ma a mio avviso sufficiente ad una editoria che si propone semplicemente di raccontare e non di stupire o di incantare o di sedurre…
O meglio, non mi dispiacerebbe sedurre i miei lettori, ma non per le immagini, o per i suoni, o per i colori, o per la grafica (anche se lo ammetto, aiutano molto!) o per gli slogan di facile commercializzazione… vorrei riuscire a coinvolgere più che altro e sopra a tutto per le parole, per i contenuti, per le riflessioni proposte o suggerite…insomma, roba solida, roba sostanziosa…più sostanziosa di una bella copertina sagomata che però alla fine passa e tutti ce ne dimentichiamo perché nel frattempo è arrivata la copertina nuova, più lucida e patinata…
In conclusione, convertitami il 5 di novembre a WordPress, ho cambiato il titolo dedicato a Socrate con il nuovo La croce e il tempo che poi si è coniugato con l’aggiunta della parola mente , per concludersi in questo ultimo con la sostituzione della parola croce.
Non che il blog non rimanga nella mia intenzione un luogo dedicato alla filosofia ed alla teologia, ma attraverso un modo di parlare sul pensiero e sulla fede che si mescola, che si intreccia, che si confonde con la realtà di tutti i giorni e con il linguaggio quotidiano, quello che usano le persone della strada, che siano laureati o solo provvisti di licenza, professori od operai, dirigenti o impiegati, giovani o meno giovani.
In altre parole, non una filosofia cattedratica, rigida, scolastica, specialistica, ricca di citazioni, di note, di approfondimenti, per la quale già esistono siti meravigliosi e di gran lunga inimitabili, proposti per l’appunto da emeriti studiosi che stanno sui libri come un muratore sta sulla calce e di cui io non ne sono degna…ma una speculazione direi più artigianale, che non sa nemmeno lei stessa quello che potrà creare dalla tavolozza dei suoi colori, cercando solo di raggiungere delle buone tele, di costruire dei buoni drappeggi; una speculazione quasi antifilosofica nel senso di antimetafisica, dove si privilegia l’idea di essere vivente e non di essere pensante.
Non che io abbia qualcosa contro i pensatori, gli intellettuali, anzi, li trovo congeniali e molto simili a quella che è la mia struttura mentale. E’ solo che non solo non se ne può più di retorica, di teorica e di sapiente teoretica, ma la gente comune ha bisogno di parole semplici e chiare, dirette.
Io sono stata uno studente adulto e lavoratore, quindi ho avvicinato il mondo dell’università già con lo sguardo di chi non pensa allo studio come ad una possibilità per fare carriera, ma come ad un bisogno reale di scoprire accordi di note, accordi di popoli, rimasti fino a quel momento sconosciuti.
E’ stato bello sedermi tra i banchi delle aule universitarie senza l’angoscia di dovere rincorrere un posto di lavoro che già avevo, ma ora che ho acquisito uno strumento straordinario di espressione, è l’esigenza del lavoro stesso che mi chiama all’esigenza di poterlo migliorare…
La filosofia non mi ha migliorato la vita economicamente parlando, non mi ha purtroppo ad oggi nemmeno cambiato lavoro, semplicemente mi ha fatto scoprire il grande spazio della vita, che è molto molto molto di più…
Stare negli atenei, anche se di passaggio, anche se solo come ospite temporanea e non come protagonista permanente, mi ha di sicuro cambiato in meglio (lo dice chi mi conosce ed io mi limito a riportarlo…), non perché negli atenei si viva fuori dalla realtà, non perché là si stia tra i giovani in un mondo sempre in perenne movimento, ma perché gli atenei esistono per dire ai suoi discepoli che li vivono “Tu sei qui per diventare migliore e per rendere migliore il mondo che fuori di qui dovrai sapere cambiare”.
Parlare di eccellenze piuttosto che di non eccellenze non è il mio scopo, il mio obiettivo; è sotto gli occhi di tutti lo sfascio che sta vivendo la scuola italiana, basta andare in FB come nei blogs dei nostri migliori scrittori che si occupano di didattica (potete trovare i loro siti sotto la voce Formazione nella pagina intitolata Le buone pratiche degli insegnanti) e se ne trovano di lamenti e di testimonianze che al confronto i pianti del popolo di Israele quasi quasi vengono messi in secondo piano.
Io dico semplicemente che laurearmi è stato per me magico, come è stato magico fare poi il master, e come continua ad essere magico continuare a fare formazione, sia che abbia a rivolgerla verso di me sia che dovessi rivolgerla ai miei presumibili alunni.
E questo perché i libri insegnano, i libri di qualunque genere, fossero canonici o digitali, come insegnano i professori, quelli che sanno trasmettere l’amore del sapere, della ricerca, dell’interrogarsi…; non si diventa mai abbastanza saputi da poter dire “Ho letto abbastanza, ne so abbastanza” e non si diventa mai abbastanza informati/formati da poter sentenziare aprioristicamente “Quello non mi interessa, non ne vale la pena, da lì non può venire nulla di buono…”. Potremmo con un certo disagio dovere retrocedere dalle nostre avventate posizioni!
Ne vale sempre la pena, quando si tratta di scuola, e ne vale sempre la pena quando si tratta di lavoro, che è il luogo dove tutta la nostra competenza acquisita dovrebbe potere confluire…
Anche se si dovesse finire a fare un lavoro che non ci rappresenta, che non riflette i nostri studi, dovremmo comunque sapere accontentarci, in tempi di crisi come questo; e se invece il potere fare quello per cui ci si è preparati dovesse rappresentare un bisogno impellente, allora bisogna insistere, bisogna cercare ovunque, bisogna anche lottare affinchè non venga meno lo stato sociale che possa permettere questo.
Io sono arrivata forse troppo tardi, forse non ce la farò ad avere il lavoro che mi rappresenta, ed intanto mi tengo quello che ho senza farne una grande tragedia; un lavoro, anche se qualunque, è meglio che essere disoccupato.
Molti altri invece, giovani e non vecchi, non stanno avendo la mia stessa fortuna.
Tra poco nel nostro paese si ritornerà a votare, almeno io lo credo. Che cosa voteremo quando saremo nel seggio e andremo a porre la nostra scheda nell’urna? Il signor Grillo sta mettendo in piedi il suo nuovo partito, tutto nuovo, tutto suo; in sostanza lui dice che i politici sono tutta spazzatura, che nessuno è credibile e che dunque tanto vale dare il voto a dei perfetti sconosciuti del mondo parlamentare che però hanno realmente la voglia di cambiare le cose.
Peccato che al di là dello scuotimento reale delle sua recitazione, Grillo alla fin fine non ci faccia più nemmeno ridere; l’abbiamo conosciuto come comico, come showman, come picconatore della politica, ed ora come scalatore del Governo.
Ma chissà, forse ha ragione lui. Se ipoteticamente dovesse prendere tutti i voti di quelli che in genere non vanno a votare o di quelli che nel frattempo si sono stufati del solito teatrino e del solito spettacolo deprimente offerto dall’indagato o dall’inquisito di turno…, bè, potrebbe entrare nello scenario politico.
Non credo molto nelle improvvisazioni; l’elettorato italiano si ripete più o meno coriacemente; negli ultimi decenni abbiamo visto delle oscillazioni alternate tra centro sinistra e centro destra, ma poi per questioni di liti interne alle maggioranze su temi personali che non hanno nulla a che fare con il bisogno delle riforme del paese, anche governi in apparenza solidi alla fine finiscono per dovere dimettersi.
Anche questa volta staremo a vedere quel che succederà; anche se forse la corda sta per essere tirata in modo eccessivo e la sua eventuale rottura non gioverebbe molto a chi avrebbe bisogno di miglioramenti.
Questo blog ha parlato e continuerà a parlare di tutto questo, di come il nostro piccolo mondo locale abbia bisogno di elevarsi e non di deprimersi; e per questo occorre il cuore, il tempo e la mente di tutti noi; con il cuore ognuno sceglie dove volere stare, con il tempo ognuno costruisce quel che ha in mente di costruire, con la mente ognuno ricerca e comprende quello che ha da modificare.
E dunque, dopo Hello world ben venga Hello Italia, noi siamo qui per cercare di fare qualcosa di utile per tutti. Semplicemente.
Dialogo di tre donne
C’erano tre donne di religione diversa che così parlavano tra loro; l’islamica, più giovane, diceva alla cristiana: « Appartieni ad una società scandalosa. Andate in giro mezze nude, i vostri figli si drogano e si ubriacano, i vostri mariti vi tradiscono, dovete lavorare doppiamente, in casa e in società, non siete un esempio in nulla. Avete una comunità violenta e corrotta che non tutela i diritti che dite d’avere. Noi saremo forse meno libere in apparenza ma abbiamo il timor di Dio, i nostri mariti ci rispettano, adempiamo sempre al nostro dovere sociale dimostrando d’essere più civili di voi, preghiamo sempre, curiamo meglio di voi i nostri figli che dimostrano d’essere allo sbando. Se qualcuna di noi viene (in casi estremamente rari) lapidata o fustigata, è comunque perché ha sbagliato e si vuole darle la giusta punizione perché sia da giusto monito a chi volesse seguire la sua strada. Forse che la vita di una donna vale più dello stato di integrità morale di un paese? Vi dite cristiane, ma dov’è il vostro cristianesimo?
Ma noi chi siamo?
L’idea di persona che un filosofo possiede o non possiede è il fondamento più o meno consapevole e più o meno dichiarato del suo pensiero. Dopo l’illusione dell’umanesimo, che ha dovuto fare i conti con la realtà, dopo i fasti del razionalismo, che ha fatto credere l’uomo padrone del suo destino, dopo il fallimento della politica come sistema di pensiero, dopo il nichilismo nietzscheano, il disincanto post-moderno e la perdita dell’innocenza dell’intera umanità, forse non rimane da un punto di vista ermeneutico, se si vuole procedere alla ricerca della verità, che riprendere l’idea di persona e di esistenza fondata sulla persona.
Questo vale soprattutto in un sistema di vita dove molto di ciò di cui ci si trova ad occuparsi non ha più ritmi e contenuti umani; ciò che rimane al controllo del singolo, dell’individuo, che non è ancora di per sé una persona, ma un’entità, è l’idea che coltiva di se stesso, e dunque, solo se definita e posseduta, diventa “l’idea di persona”. Continua a leggere
L’enorme problema del cristianesimo
Nei vangeli Gesù in più occasioni, attraverso i suoi apostoli, dà la propria idea di chiesa e di stato e lo fa attraverso l’idea di persona e di famiglia. Secondo il suo insegnamento la famiglia è il primo nucleo dello stato, dove viene attribuito un ruolo ben preciso ad ogni suo componente, dove tutti i membri si sorreggono, si appoggiano, si aiutano. Essa necessita d’essere fondata sull’amore umano ispirato dal sentimento religioso che è oltre la legge umana; per sentimento religioso si intende lo spirito di carità che può essere presente in ogni uomo. Come è per la famiglia, dovrebbe essere lo stare in un gruppo.