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SMAU, SCUOLA E NUOVE TECNOLOGIE DIDATTICHE

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Fenomenologia di un sentimento, fenomenologia di un mestiere

 

Con questo articolo vorrei riprendere il tema  dell’analisi dei sentimenti,  tra cui in particolare mi rivolgo al sentimento per eccellenza, il sentimento amoroso  della coppia,  inteso  come momento  di incontro con l’altro, di esaltazione della mescolanza, di perdita del sé, di riflessione del sé e dell’altro, di  consapevolezza  e accettazione del reale, di cambiamento  continuo metafisico e fisico, di comprensione del tempo e di progettazione del futuro,  secondariamente annesso  all’importanza e all’arte dell’insegnamento.

Sono quelle sopra citate   le complesse fasi che interessano ed accompagnano   ogni fenomeno di innamoramento quando per innamoramento si intende l’incontro di  due persone che si rivelano  e si scoprono essere fatte l’una per l’altra.

Per deduzione a questo principio cardine ed universale  che riguarda il sentimento amoroso,  non può essere detto amore tutto quello  che   fuoriesce da questo  schema, da questa griglia, da questo puntiglioso tracciato.

Possiamo  ben comprendere  perché migliaia e migliaia di rapporti  finiscono anche dopo brevissimo tempo,  o anche dopo un lunghissimo tempo, o finiscono nonostante eccellenti  premesse,   o non riescono a decollare nonostante eccellenti  condizioni,  o ancora,  non si evolvono come dovrebbero evolversi,   cadendo in forme di pseudo amore,  dove la coppia è solo apparenza più che sostanza, o dove la coppia è compromesso, o convenienza, o ragion di stato, o abitudine,  o incapacità  all’esercizio della verità.  O  infine  resistono e si rinsaldano   tenacemente  nonostante  prove innumerevoli  e di lungo  percorso…

Ecco la prima condizione che il sentimento amoroso incontra e richiede:  il suo essere vero, il suo essere assoluto, il suo aspirare alla bellezza, il tendere al miglioramento continuo, il suo volersi proteggere da ogni possibile contaminazione, il suo sapersi donare dentro il cerchio e fuori del cerchio relazionale, il suo esigere chiarezza, il suo essere onesto e sincero, umile e modesto,  giocondo  e spensierato, geloso e fiducioso, gentile e coraggioso, intelligente  e  riflessivo.

Prima condizione dell’essere innamorato è dunque avere la possibilità, occasione, fortuna, contingenza che dir si voglia,  di incontrare   la persona giusta.

Ci si può chiedere con  ragione  come sia possibile riconoscere con certezza la persona che dovrebbe essere fatta per noi. Questa è la prima enorme difficoltà.  Se si sbaglia questo preliminare, che oltretutto  capita accidentalmente  perché non può essere in alcun modo pianificato,  si sbaglierà poi conseguentemente  tutti i passaggi successivi.

Non sapere riconoscere la persona giusta, o non saperla  scegliere, sono  errori  di una tale gravità ed imperdonabilità  che vengono pagati con  un prezzo  altissimo, ben peggiore di qualunque perdita finanziaria, anche la più disastrosa, come di qualunque  perdita d’immagine.

Forse questa sconfitta   è meno visibile,  è meno conclamata, è meno  soppesata dal sistema  sociale in cui ci troviamo immersi,  ma  vive ed impera  nel tessuto interiore  delle persone, dei singoli, degli individui,  che a loro volta costituiscono la nostra società.

E’  come se noi fossimo calati in un contesto urbano o non urbano  che tiene conto del nostro conto in banca, del nostro aspetto fisico,  del nostro lavoro e della nostra rete  relazionale, ma non tiene in minimo conto  la nostra  vita privata  forse proprio perché  privata e dunque appartenente  alla sfera  del non detto, del taciuto,  del riservato.

Chiariamo allora subito  in che senso il privato è privato e tale deve rimanere,  e in che senso il pubblico è pubblico  e deve essere  funzionante al privato e viceversa.

L’essere, l’io, la persona, il singolo, come infine l’individuo,  è fatto di questa mescolanza:  ha una suo sentire  interiore ed un suo essere calato nel mondo quotidiano che si interfacciano e non si scindono mai spontaneamente.

L’armonia, l’integrazione, l’equilibrio, la complementarità di queste due sfere che sono  concentriche  costituiscono  il presupposto della felicità.

Che vuol dire che non basta la coppia  a determinare la propria felicità,  perché la coppia stessa vive nel sociale,  vive nella pluralità  del tutto, necessita  del suo inserimento in tale sistema  condiviso;  ecco perché  il privato, che tale deve rimanere,  ha comunque un peso enorme per il benessere del pubblico.

Facciamo esempi concreti:  abbiamo avuto un litigio o uno scontro  con il proprio compagno,  e diventiamo intolleranti o nervosi anche  sul posto di lavoro  con i propri colleghi  o con chi avremo la sventura  di  incontrare.

Non che ci inventiamo occasioni di scontro,   semplicemente reagiamo alle normali    situazioni critiche  che  incontriamo  nel modo peggiore, per il verso meno favorevole, con un atteggiamento di chiusura e di   critica  distruttiva o impietosa.

In condizioni psichiche e personali   diverse  certamente reagiremmo in modo differente.

Così  come tutto il sistema pubblico   si appoggia  sulla consistenza  del sistema privato,  anche  lo sviluppo  del sapere  e lo sviluppo del sociale  si appoggiano sulla nostra personale capacità di costruire  relazioni personali.

Da questo risaputo principio  si può dedurre  che se il sistema pubblico e sociale non funziona è perché non funziona il nostro sistema privato, ossia   non funzionano i singoli che non sanno costruire le proprie vite in maniera funzionante, efficace e costruttivista.

Sorge spontanea la domanda:  ma c’è un sapere, un corso  di laurea,  che insegni alla vita?  Che insegni  la vita? Abbiamo  i corsi di psicologia, di sociologia, di filosofia, di teologia, ma non abbiamo  corsi  di  studio  della vita, della vita reale e quotidiana, che a sua volta è una mescolanza di tutti questi saperi.

Sarebbe interessante, perché no,  che qualche università  si interessasse  di questo  argomento; le domande oggetto di ricerca potrebbero essere molteplici,  per esempio:   perché  gli uomini  (nel senso delle persone) interrompono legami  matrimoniali ormai consolidati nel tempo? Perché gli uomini  amano avere relazioni  extraconiugali? Perché gli uomini  si sposano con estrema leggerezza  o evitano il matrimonio  come se fosse la peste? Perché  i figli sono lo specchio parziale  della coppia?  Perché la società  non difende e tutela adeguatamente  la famiglia  che è la sua perla più preziosa? Perché  tra genitori e figli è sempre esistito il cosiddetto conflitto  generazionale?  Perché  gli equilibri  di coppia  si raggiungono attraverso percorsi ad ostacoli  che fuoriescono e si sottraggono ad ogni genere di giudizio definitivo? 

Quanti argomenti, quanti aspetti,  quanti angoli  sconosciuti e misteriosi che potrebbero  essere fonte di saperi  estremamente utili e produttivi.

Vorrei   collegare questo mio argomentare ad uno studio che sto facendo  sul Dire la pratica  all’interno  di un eccellente studio di ricerca iniziato presso l’Università  di Verona   da giovani e meno giovani ricercatori  che   si vogliono occupare  dell’arte dell’insegnamento, arte antica quanto  sconosciuta nel senso di mai indagata  come prassi.

Si è appena concluso il convegno intitolato a questo tema  delle narrazioni didattiche   il 12 novembre scorso; erano presenti in sala presso lo storico edificio di Via Cantarane   le migliori eccellenze  universiterie del settore  internazionali e non, l’aula era gremita tanto che abbiamo dovuto cambiare la stanza  per potere dare a tutti i presenti  la possibilità di sedersi…(molti giovani studenti   che forse un giorno  saranno insegnanti  migliori di come lo siamo  stati noi nel passato anche grazie a questa preziosa risorsa aggiuntiva che la ricerca ha saputo mettere in campo nonostante la crisi  e nonostante le cattive politiche finanziarie…)

I  corsi di laurea  hanno da che mondo e mondo una impostazione teoretica/astratta.  Il saper fare, l’arte del creare, dell’improvvisare, dell’interagire nell’attimo e sull’attimo attraverso  le ordinarie  occasioni  di vita,  sono sempre state oggetto  di silenzio e di disattenzione, per non dire di sminuimento.

L’insegnante  fino a poco tempo fa  è sempre   stato colui che possiede il sapere delle parole intese nella loro  concettualizzazione , che possiede il sapere  dei contenuti  oggettivi;  dopo alcuni anni  in cui si è dato spazio   a valenti ricercatori e ricercatrici  che hanno cominciato ad occuparsi del come, del verso chi e  del perché   si fa didattica  (e non più   del quando     o      del dove   o del      su che cosa…)  si è scoperto  che  anche e soprattutto il mestiere  di insegnante  ha bisogno    della sua  prassi, cioè  della sua narrazione  delle pratiche didattiche.

Questi esperimenti d’aula  anzichè di laboratorio  vanno scritti, vanno osservati, vanno conservati, vanno documentati, esattamente come si farebbe con  un problema di carattere prettamente scientifico. E naturalmente  indagati con metodo scientifico,  con rigore, con fedeltà,  con attenzione  verso l’altro,  visto che qui si ha a che fare anche nella fase  iniziale e non solo in quella finale  con esseri umani,  con soggetti viventi,  con vite  che pulsano  e  chiedono  di  continuare  a pulsare  migliorando la qualità  della loro vita.

I  medici hanno il racconto dei loro casi clinici, gli avvocati hanno il racconto dei loro casi giudiziari, l’architetto ha il racconto  delle sue costruzioni  architettoniche, tutti accedono normalmente  agli archivi di loro competenza…solo  per  gli insegnanti  si è sempre dato per assodato  che avessero  già  acquisito in sé  l’arte del saper insegnare,  magari solo per avere fatto qualche settimana  di stage  sul campo,  cosa assolutamente non vera  e non certa, non precostituita  e predata.

Questo volume, Dire la pratica,  edito da Bruno Mondadori,  è l’excursus  di un team  che ha saputo incontrarsi (qui non c’è la coppia ma c’è il gruppo),  che ha saputo incontrare (qui non c’è  la società genericamente intesa ma  un tassello  della società stessa,  quella che riguarda nello specifico   il mondo della formazione)  , che ha saputo  porsi  delle domande  utili e preziose   a cui  finalizzare la propria ricerca (come si insegna? Esiste un metodo valido sempre e comunque? Cosa varia    e cosa non varia? Quanto conta la soggettività del docente?…),  che ha  voluto (sempre per riprendere  il legame stretto  tra  sapere, volere e potere) essere un’occasione di aiuto e di sostegno ai docenti  che ogni giorno  si trovano a combattere sul campo come se andassero in trincea,  più preoccupati  loro malgrado e per loro mortificazione,   di portare a casa la pelle che di portare a casa   conquiste.

Se poi si pensa  che  queste conquiste non sono altro che il benessere psico-fisico, spirituale ed intellettivo i nostri figli, dei figli  che nasceranno dai nostri , e così discorrendo,  si può ben comprendere l’urgenza, la gravità, la sostanzialità,  la vitalità ed il vitalismo  di questa riflessione.

Mi  riservo  di riprendere questo tema ambivalente  e strettamente  legato a mio avviso,  tra l’essere una persona felice e l’essere un buon insegnante,  quando avrò  acquisito  maggiori elementi  oggettivi e soggettivi  per  potere tornare  sul tema.

Anch’io sono una neofita, anch’io sono una che è arrivata come molti altri per ultimo,  per la mia gigantesca inesperienza forse non avrei nemmeno diritto di parola,  ma è pur vero che se non ho una lunga  esperienza come insegnante,  ho però una lunga esperienza  di vita vissuta sempre all’interno del sistema scuola e sempre all’interno  del sistema   società. Ovviamente non solo di  vita vissuta, ma anche di   vita metariflessa,  condivisa, discussa, osservata…

Nel frattempo  già in queste poche parole sono emersi, a mio modesto parere, spunti di riflessione  con cui lascio il  lettore  a  certe  proprie valutazioni.

Hello Italia!

Hello  world, oggi entro anch’io nel pianeta  web…

Ciao carissimi,  cominciava  così, con questo saluto e con un’immagine di popolo in marcia  la mia avventura quasi un anno fa  nel mondo del web, ma da oggi cambio il titolo del mio blog; non più “La croce il tempo e la mente”  ma  invece  “Il cuore  il tempo e la mente”. 

Le ragioni che mi hanno portato a questa modifica, che considerei conclusiva dopo i vari passaggi intermedi,   sono semplici:  nei vari  post inseriti  si è molto parlato di   sentimenti, di passioni, di scelte, di impulsi,  di pulsioni,  oltre che di fede e di religione;  di pari passo,  ho  sempre riferito il mondo religioso  ad un universo singolare, intieriore, personale,    che ben si concilia con la sfera  del sentimento, delle scelte dei singoli e non dei gruppi. La mia idea di religione, ossia di croce, è sempre stata legata alla sfera privata dell’essere; non è credente chi manifesta con i riti e le cerimonie, quantomeno non prioritariamente e non essenzialmente; per me è religioso chi semplicemente ha Dio nel suo cuore, e dunque nel suo pensiero, e dunque nel suo agire.  La parola croce però a mio avviso farebbe più pensare a un pensiero  crociato, che si crede investito di verità indiscutibili e certe, e mi rendo conto  che rimane un termine non adatto, non consono allo spirito molto meno  assolutista di questo mio discorrere con chi si dovesse trovare ad   incrociarmi nella babilonia della rete.

Più adatta la parola cuore, parola  anch’essa legata alla fede e dunque alla croce  (si crede con il cuore e solo con il cuore, non basta il cervello),  consapevole del fatto  che  ora  il  rischio  del blog  è    di essere scambiato    per  un luogo  dove si  dà  spazio  allo sterile  sentimentalismo; lungi  da me questa orribile  caduta,  poiché  tanto   il rigido dogma di chi si crede nel giusto solo perchè abbraccia una bandiera  prestigiosa  che qualcuno gli ha illustrato e che viene accolta   senza una reale  adesione, quanto   il becero sentimentalismo di chi strimpella melodie asfittiche  e  posticce,  sono i due  terribili nemici da evitarsi,  se si vuole cercare la verità, se si vuole capire, se si vuole sapere partecipare al gioco della vita.

Anche le ragioni che mi hanno portato ad aggiungere la parola mente al titolo scorso “La croce e il tempo”  sono  assai semplici, l’ho anche implicitamente   spiegato nei post dove  parlavo appunto della mente attraverso l’elogio della psicanalisi:  per dirla tutta, all’inizio, ossia   il primo novembre  del 2009,  quando ho inserito  il primo articolo  in blogspot  di google,    il sito si chiamava  “La  lanterna di Socrate”  in omaggio  alla filosofia e in onore  a Socrate, che nella mia concezione filosofica   individuo come il padre del pensiero  moderno.

Dopo soli cinque giorni  ho scoperto il mondo di wordpress e l’ho ritenuto subito più idoneo alle mie esigenze di scrittura,  più minimalista, più essenziale, passando   così  ad una   grafica  forse meno  ampia, con minori effetti   speciali,  con minore  disponibilità di  widget  (sob sob…qualcuno in più non guasterebbe!), ma a mio avviso sufficiente  ad una editoria   che si propone semplicemente    di raccontare   e non di stupire o di incantare o di sedurre…

O meglio,  non mi dispiacerebbe sedurre i miei lettori,  ma non per  le immagini, o per i suoni, o per i colori, o per la grafica (anche se lo ammetto, aiutano molto!) o per gli slogan  di facile  commercializzazione… vorrei  riuscire a coinvolgere  più che altro e sopra a tutto per le parole, per i contenuti,  per le riflessioni proposte o suggerite…insomma, roba solida,  roba sostanziosa…più  sostanziosa di    una bella copertina sagomata   che però  alla fine passa e tutti ce ne dimentichiamo perché nel frattempo è arrivata    la copertina nuova, più lucida e  patinata…

In  conclusione, convertitami   il 5 di novembre a WordPress,  ho  cambiato il titolo dedicato a Socrate  con il nuovo La croce e il tempo  che poi si è coniugato con l’aggiunta della parola mente , per concludersi   in questo  ultimo con la sostituzione della parola croce.

Non che il blog   non rimanga nella mia intenzione un luogo dedicato alla filosofia ed alla teologia,  ma attraverso  un modo di parlare sul  pensiero  e sulla fede  che si mescola, che si intreccia, che si confonde con la realtà di tutti i giorni  e con il linguaggio quotidiano, quello che usano le persone della strada, che siano laureati o solo  provvisti di licenza, professori od operai, dirigenti o impiegati, giovani o  meno giovani.

In altre parole, non una filosofia  cattedratica, rigida, scolastica, specialistica, ricca di citazioni, di note, di approfondimenti,  per la quale già  esistono siti  meravigliosi e di gran lunga  inimitabili,  proposti per l’appunto  da emeriti  studiosi  che stanno sui libri  come un muratore  sta sulla calce e di cui io non ne sono degna…ma una speculazione  direi più artigianale, che non sa nemmeno lei  stessa quello che potrà  creare dalla tavolozza dei suoi colori,  cercando solo  di raggiungere delle buone tele,  di costruire  dei buoni  drappeggi;  una speculazione  quasi  antifilosofica nel senso  di antimetafisica, dove si privilegia l’idea  di   essere vivente e non  di  essere pensante.

Non che io abbia  qualcosa  contro i pensatori, gli intellettuali, anzi,  li  trovo  congeniali e molto  simili a quella  che è  la mia struttura   mentale.  E’    solo che non solo non se ne può più di retorica, di teorica  e  di  sapiente  teoretica,  ma la gente comune   ha bisogno di parole semplici e chiare, dirette.

Io sono stata uno studente adulto e lavoratore, quindi  ho avvicinato il mondo dell’università  già   con lo  sguardo    di chi  non   pensa  allo studio come ad una possibilità per fare carriera, ma come ad un bisogno  reale  di scoprire  accordi  di note,  accordi di popoli,  rimasti fino a quel momento sconosciuti.

E’ stato bello sedermi tra i banchi delle  aule   universitarie  senza l’angoscia di dovere rincorrere un posto  di lavoro  che già avevo,  ma ora che ho acquisito uno strumento straordinario di espressione, è l’esigenza del  lavoro stesso che  mi chiama all’esigenza  di poterlo migliorare…

La filosofia non mi ha migliorato la vita economicamente  parlando,  non mi ha purtroppo ad oggi nemmeno cambiato  lavoro,  semplicemente  mi ha fatto scoprire  il grande spazio della vita,   che è molto molto molto di più…

Stare negli atenei, anche se di passaggio, anche se solo  come   ospite temporanea  e non come   protagonista  permanente,   mi ha di sicuro cambiato  in meglio (lo dice chi mi conosce ed io mi limito a riportarlo…),  non perché negli atenei  si viva fuori dalla realtà, non perché là si stia tra i giovani  in un mondo  sempre in  perenne  movimento,   ma perché gli atenei esistono per dire ai suoi discepoli  che li  vivono  “Tu sei qui per diventare migliore e per rendere migliore il mondo che fuori di qui dovrai sapere cambiare”.

Parlare  di eccellenze piuttosto che  di non eccellenze  non è il mio scopo, il mio obiettivo;   è sotto gli occhi di tutti  lo sfascio che sta vivendo la   scuola italiana, basta andare in FB   come  nei blogs dei nostri migliori scrittori che si occupano di didattica (potete trovare i loro siti   sotto la voce Formazione nella pagina intitolata Le   buone  pratiche degli insegnanti) e se ne trovano di lamenti e di testimonianze che al confronto  i pianti del popolo di Israele  quasi  quasi  vengono messi in secondo piano.

Io dico semplicemente che laurearmi è stato per me magico, come è stato magico  fare poi il master, e come continua ad essere magico  continuare a fare formazione,  sia che abbia a rivolgerla   verso di me sia che dovessi rivolgerla ai  miei presumibili  alunni.

E  questo perché  i libri  insegnano, i libri di qualunque genere,  fossero  canonici o digitali, come insegnano i professori, quelli che sanno trasmettere l’amore del sapere, della ricerca,  dell’interrogarsi…;  non si diventa mai abbastanza saputi   da poter dire  “Ho letto abbastanza, ne so abbastanza”  e non si diventa mai abbastanza informati/formati      da  poter  sentenziare    aprioristicamente  “Quello non mi interessa, non  ne vale la pena, da lì non può venire nulla di buono…”. Potremmo con un certo disagio dovere retrocedere dalle nostre avventate posizioni!

Ne vale sempre la pena, quando si tratta di scuola, e ne vale sempre la pena  quando si tratta di  lavoro, che è il luogo  dove tutta la nostra  competenza  acquisita dovrebbe potere confluire…

Anche se si dovesse finire a fare un lavoro che non ci rappresenta,  che non riflette i nostri studi,  dovremmo comunque sapere accontentarci,  in tempi di crisi come questo;  e se invece  il potere fare quello per cui ci si è preparati   dovesse  rappresentare    un bisogno  impellente,  allora bisogna insistere, bisogna  cercare ovunque,  bisogna  anche  lottare  affinchè  non venga meno  lo stato sociale  che possa   permettere questo.

Io  sono  arrivata forse troppo tardi, forse non ce la farò  ad avere il lavoro  che mi rappresenta, ed intanto mi tengo quello che ho  senza farne  una grande tragedia;  un lavoro, anche se qualunque,  è meglio che essere disoccupato.

Molti altri  invece, giovani e non vecchi,  non stanno avendo   la mia   stessa fortuna.

Tra poco nel nostro paese  si    ritornerà a votare, almeno io lo credo. Che cosa voteremo quando saremo nel seggio e andremo a porre la nostra scheda nell’urna?  Il signor Grillo sta mettendo in piedi il suo nuovo partito, tutto nuovo, tutto suo;  in sostanza lui dice che i politici sono tutta spazzatura, che nessuno  è credibile  e che dunque tanto vale dare il voto a dei perfetti sconosciuti   del mondo  parlamentare  che però hanno  realmente  la  voglia  di   cambiare le cose.

Peccato che al di là  dello scuotimento  reale delle sua recitazione,  Grillo alla fin fine non ci faccia  più nemmeno  ridere;  l’abbiamo conosciuto come comico, come showman,  come  picconatore della politica, ed ora come scalatore  del Governo.

Ma  chissà, forse ha ragione lui. Se ipoteticamente dovesse prendere tutti i voti di quelli che in genere non vanno  a votare o di quelli che nel frattempo si sono stufati del solito teatrino e del solito spettacolo deprimente  offerto dall’indagato o dall’inquisito di turno…,  bè, potrebbe entrare  nello scenario politico.

Non credo molto nelle improvvisazioni;   l’elettorato  italiano    si ripete più o meno  coriacemente;  negli ultimi decenni  abbiamo visto delle oscillazioni  alternate  tra centro sinistra   e  centro destra,   ma poi   per questioni di liti interne alle maggioranze su temi personali che non hanno nulla a che fare con il bisogno delle riforme del paese,  anche governi in apparenza solidi  alla fine finiscono  per dovere dimettersi.

Anche questa volta staremo a vedere quel che succederà;  anche se  forse la corda  sta per essere tirata  in modo  eccessivo e  la sua  eventuale rottura non gioverebbe   molto a chi avrebbe bisogno di miglioramenti.

Questo blog ha parlato e continuerà a parlare di tutto questo, di come il nostro piccolo mondo locale   abbia bisogno di elevarsi  e non di deprimersi;  e per questo occorre il cuore, il tempo e la mente di tutti noi; con il cuore ognuno sceglie dove volere stare, con il tempo ognuno costruisce  quel che ha in mente di costruire,  con la mente ognuno ricerca e comprende  quello  che ha da modificare.

E dunque, dopo Hello world    ben venga      Hello  Italia,  noi siamo qui  per cercare  di fare qualcosa  di utile per tutti.  Semplicemente.

Dialogo di tre donne

 

       C’erano tre donne di religione diversa che così parlavano tra loro; l’islamica, più giovane, diceva alla cristiana: « Appartieni ad una società scandalosa. Andate in giro mezze nude, i vostri figli si drogano e si ubriacano, i vostri mariti vi tradiscono, dovete lavorare doppiamente, in casa e in società, non siete un esempio in nulla. Avete una comunità violenta e corrotta che non tutela i diritti che dite d’avere. Noi saremo forse meno libere in apparenza ma abbiamo il timor di Dio, i nostri mariti ci rispettano, adempiamo sempre al nostro dovere sociale dimostrando d’essere più civili di voi, preghiamo sempre, curiamo meglio di voi i nostri figli che dimostrano d’essere allo sbando. Se qualcuna di noi viene (in casi estremamente rari) lapidata o fustigata, è comunque perché ha sbagliato e si vuole darle la giusta punizione perché sia da giusto monito a chi volesse seguire la sua strada. Forse che la vita di una donna vale più dello stato di integrità morale di un paese? Vi dite cristiane, ma dov’è il vostro cristianesimo?

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Ma noi chi siamo?

 

 ecce homo

L’idea di persona che un filosofo possiede o non possiede è il fondamento più o meno consapevole e più o meno dichiarato del suo pensiero. Dopo l’illusione dell’umanesimo, che ha dovuto fare i conti con la realtà, dopo i fasti del razionalismo, che ha fatto credere l’uomo padrone del suo destino, dopo il fallimento della politica come sistema di pensiero, dopo il nichilismo nietzscheano, il disincanto post-moderno e la perdita dell’innocenza dell’intera umanità, forse non rimane da un punto di vista ermeneutico, se si vuole procedere alla ricerca della verità, che riprendere l’idea di persona e di esistenza fondata sulla persona.

 Questo vale soprattutto in un sistema di vita dove molto di ciò di cui ci si trova ad occuparsi non ha più ritmi e contenuti umani; ciò che rimane al controllo del singolo, dell’individuo, che non è ancora di per sé una persona, ma un’entità, è l’idea che coltiva di se stesso, e dunque, solo se definita e posseduta, diventa “l’idea di persona”. Continua a leggere

L’enorme problema del cristianesimo

Nei vangeli Gesù in più occasioni, attraverso i suoi apostoli, dà la propria idea di chiesa e di stato e lo fa attraverso l’idea di persona e di famiglia. Secondo il suo insegnamento la famiglia è il primo nucleo dello stato, dove viene attribuito un ruolo ben preciso ad ogni suo componente, dove tutti i membri si sorreggono, si appoggiano, si aiutano. Essa necessita d’essere fondata sull’amore umano ispirato dal sentimento religioso che è oltre la legge umana; per sentimento religioso si intende lo spirito di carità che può essere presente in ogni uomo. Come è per la famiglia, dovrebbe essere lo stare in un gruppo.

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