
Per me scrivere è una forma di insegnamento.
Pensiamoci bene; la scuola è un mondo fatto di parole, di relazioni, di scambi, dove la parola scritta gioca un ruolo principe.
Questo segno scritto può diventare qualcosa di più elaborato, di più complesso, di grafico, di uditivo, nel momento in cui si trasforma in un disegno, in una immagine, in un video o in un suono.
Se avessi potuto scegliere chi essere avrei preferito conoscere la musica, diventare compositore, perché il suono è la forma di espressione collettiva più completa e diretta.
In seconda possibilità avrei scelto di coltivare l’immagine, perché attraverso l’occhio dopo l’udito noi possiamo comunicare le emozioni più profonde, comprese quelle che rimangono precluse alla parola.
Mi sono dovuta accontentare di potere approfondire l’uso della parola.
Così che sono solo una persona che cerca di conoscere il linguaggio scritto.
A scuola i nostri alunni li portiamo a visitar mostre, più raramente a sentire concerti (che invece li farebbe impazzire); talvolta ad assistere a spettacoli, soprattutto teatrali, dove regna sovrana la parola parlata, sentita, ascoltata.
Il teatro come ogni forma di spettacolo simile ( vedasi il cinema) è l’incontro della parola scritta con la parola detta.
Fino a che noi le parole le scriviamo, escono dalla nostra testa per finire su un pezzo di qualcosa che le porterà alla visione degli altri.
Uscite dalla nostra mente e volate via leggere come farfalle più o meno saettanti, di queste parole noi non siamo più padroni.
Le abbiamo consegnate al tempo, allo spazio, spesso al vuoto.
A volte invece succede che le parole scritte mettano in movimento qualcosa, per esempio altre parole, altre riflessioni, altre condizioni.
Quando questo accade la nostra parola è diventata mezzo di insegnamento.
Certo, in un mondo dove siamo subissati da molteplici linguaggi, da molteplici contenuti, è quasi pressoché difficile incrociare quelle espressioni verbali che potrebbero tornarci utili e positive.
A volte non si è nemmeno in grado di riconoscerle, tanto si è frastornati da contesti tra i più impensabili e complicati.
Così che ci possono essere parole preziose che lasciamo cadere nel nulla, in quel contenitore grande e grigio, senza forma e senza sostanza che chiamiamo appunto il “vuoto”.
Un insegnante raggiunge il suo successo quando ha l’abilità ma anche la fortuna di fare incrociare le sue parole, ossia la sua presenza, con il proprio interlocutore.
Questo accade non perché si è riusciti ad utilizzare un vocabolario speciale, non perché si è potuto adottare una tecnologia super dotata, ma perché si è riusciti a far congiungere la necessità dell’alunno coinvolto con la sollecitazione/contenuto del docente impegnato.
La partita più importante accade sul piano emotivo, affettivo, relazionale.
In questo preciso momento il maestro e il suo scolaro si trasformano in qualcosa di umanamente diverso; non credo che si tratti di dire che un insegnante è come un padre, un insegnante rimane un professionista, un educatore pagato per un lavoro preciso, una presenza autorevole che l’alunno non può che guardare che con un vago senso di dipendenza.
Ma anche un padre è qualcuno dal cui essere il figlio dipende, solo che la paternità non percepisce nessuno stipendio per esercitarsi.
Per assurdo potremmo aggiungere che un padre è autorizzato a sbagliare, essendo che solo la capacità di un amore assoluto rende capaci di esercitare perfettamente questa funzione ( al cui compito l’atto del generare chiama il padre alle sue responsabilità), mentre un docente che viene pagato per essere tale, in caso di errore sarebbe richiamabile immediatamente ai suoi doveri.
Di una vita generata si diventa responsabili fino alla raggiunta autonomia di colui che si è generato; di una vita educata ci si fa responsabili fino alla effettiva trasmissione di saperi/competenze che ci si è preso l’incarico di insegnare.
Questo in linea di massima.
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