I VERI INSEGNANTI SI SONO SEMPRE RACCONTATI…

Calmo, sicuro, il professore siede in classe: gli strumenti sono pronti: piccole tavole con lettere, un libro con l’immagine di un pesce, fisch.  Il maestro guarda gli allievi: egli sa già tutto quello che devono comprendere; sa in che consiste la loro anima, e varie altre cose che ha imparato al seminario.

Apre il libro e mostra il pesce. “Cari  bambini, che cosa è questo?”  i poveri bambini gioiscono vedendo il pesce, se però non sanno già, per averlo  inteso  da altri scolari,   con quale salsa sarà servito.   In ogni modo essi dicono: “E’ un pesce”. “No!” riprende il professore (tutto ciò non è un’invenzione né una satira, ma il racconto esatto di un fatto che , senza eccezione, ho visto in tutte le migliori scuole di Germania e nelle scuole inglesi che hanno adottato questo  modo di insegnare).  “No”  dice il professore   “che  vedete dunque?”.  I  bambini   tacciono.  Non dimenticate che hanno l’obbligo di rimanere seduti, tranquilli, ciascuno al suo posto, e di  non muoversi.  “Dunque, cosa vedete?”

“Un libro”  dice il più stupido.  Durante  questo tempo i bambini  più intelligenti   si sono chiesti mille volte ciò che vedono; essi sentono  che non potranno indovinare  ciò che esige il professore e che bisogna rispondere  e che bisogna rispondere che questo pesce non è un pesce  ,  ma qualcosa che essi non sanno nominare.

“Sì, sì”  fa il maestro con gioia. “Benissimo, un libro  e poi?”  domanda il maestro.

I  più intelligenti e spiritosi  indovinano e dicono al maestro tutti orgogliosi: “delle lettere!”   “No, non, niente   affatto”, risponde con tristezza il maestro: “Bisogna  riflettere  prima di parlare”.

Di nuovo tutti gli intelligenti  sono tristi  e tacciono;  non cercano neanche più;  oramai pensano  agli occhiali del professore  e si domandano perché non se li leva  piuttosto che guardare al disopra di essi.  “Avanti dunque, che c’è nel libro?”  Tutti tacciono.  “Ma che cosa c’è qui?”  “Un  pesce!”  dice un audace. “Sì, un pesce,  ma è un pesce vivo?”  “No, non è vivo”   “Benissimo, ma allora è morto?”  “No”  “Bene, allora cos’è  questo pesce?”  “Una  immagine”.  

“Proprio così, molto bene!”   Tutti ripetono: è una immagine, e pensano che sia finita.  No, bisogna dire ancora che è un’immagine che rappresenta un pesce.  E per la stessa via il maestro ottiene che gli allievi  dicano che è un’immagine  che rappresenta  un pesce.   Egli si immagina che così i suoi allievi ragionino  e non gli passa nemmeno per la mente che,  se ha l’obbligo di insegnare agli allievi a dire precisamente: è un libro con una immagine di un pesce,    sarebbe  assai più semplice dirla, questa formula straordinaria, e farla imparare a memoria.

racconto del maestro  Iasnaja  Poliana  1862

Questo piccolo  brano l’ho estrapolato dal libro  L’autoeducazione   della Montessori.

Nella sua  semplicità  mi ha colpito per almeno due ragioni:  ho potuto osservare come la pratica del raccontare l’evento didattico è sempre stata percepita come un passaggio utile e quasi naturale  a cui il maestro è sempre ricorso  per riuscire a fare chiarezza e a farsi chiarezza nel suo lavoro,  ed ho potuto  registrare come  il rigidismo scientifico   applicato  in pedagogia  acceca/rallenta   il cammino  pedagogico che sarebbe altrimenti  più  spontaneo  e meno  arzigogolato…

Il mestiere dell’insegnante  è uno di quei lavori   che non mostrano nell’immediato il frutto di quel che si è operato;  lui va seminando nelle piccole anime dei suoi scolari  tanti pensieri, sensazioni, impressioni, domande, disappunti, problemi, interrogativi, sfide, incomprensioni, indovinelli, curiosità, argomenti, interessi, scoperte… che sono  tutto il grande universo dello stare in un luogo  fatto apposta per apprendere, crescere, formarsi, educarsi alla vita, e non solo, si badi bene,  alla scienza e all’arte.

Non bisogna  dunque avere fretta   di  raccoglierne  i  risultati;  tutto lavora in un mondo tanto sotterraneo, interiore,  invisibile, impercettibile,  quanto  emergente,  determinato,  chirurgico,  conseguente,  di cui il domani  sarà la risposta che si attende.

Il maestro  è la stella cometa del suo gruppo classe;  punto cardinale al quale rivolgersi, predisposto a fare luce,  a indicare  tutti i possibili  sentieri   che stanno sulla via  che costituiscono  le mille facce della realtà.

Bisogna  solo che il maestro prenda coscienza di sè,  prenda consapevolezza  della propria  forza  e  del proprio  compito;  nel momento in cui tale insegnante decide  di concedersi all’insegnamento,  tutto  gli si può aprire  come per  incanto.

Che non vuol dire  che finiscono le difficoltà, le incongruenze, le anomalie e le  distorsioni del sistema formativo scolastico;  SEMPLICEMENTE  il maestro  si fa  carico  della sua funzione, ne accetta il battesimo,  come se andasse abbracciando  una specie di religione.

In questi giorni ho potuto assistere ad un programma televisivo che riportava l’esempio educativo di tre centri d’accoglienza  dell’infanzia  abbandonata;  centri sperimentali, centri d’avanguardia, nati dall’intuito e dallo spirito di semplici  ed umili quanto indefessi  fondatori  che hanno  voluto costruire qualcosa  che rimanesse nella storia per il bene di tutti, di tutta la società.

Mi sto riferendo al già nominato  e famoso  fenomeno di Nomadelfia  come ai collegi   meno famosi ma non per questo  meno  preziosi  che si sono posti il dramma del fanciullo  che, una volta abbandonato, è solitamente condannato a vivere come un numero in istituti che somigliano sempre più a luoghi di vera e propria carcerazione.

Montessori, Milani, don Zeno, e molte altre  pedagogiste/i   del nostro recente  passato,  hanno dimostrato  che il bambino ha solo bisogno sostanzialmente   di una cosa per crescere bene:  d’affetto.

Ma come,  in un mondo che sembra avere messo i diritti   degli animali e delle stesse piante in cima  alle nostre stesse priorità,  come può  dimenticarsi  ancora dei bambini  e della loro infelicità?

Forse si può immaginare la risposta:  gli animali e le piante non stanno lì a replicare il nostro operato,  ma ogni errori che noi andiamo  a perpetrare su un infante,  è un debito   che andiamo  ad ascrivere   nel nostro  diritto/dovere di stare  con giustizia  nel mondo.

Il caso del sig. LaQualunque

 

Analisi di un fenomeno sociale  preoccupante che rischia di venire sottovalutato  e  scambiato   per  un  male  necessario perché  condiviso.

Chi è il sig. LaQualunque  Cetto ?  Perché  Albanese  se ne è occupato nella sua ultima satira? Perché lui stesso  lo definisce il personaggio più schifoso  e rivoltante  che  abbia ad oggi avuto modo di  interpretare?

Forse perché la realtà supera di gran lunga la fantasia,  e questo ce lo ha insegnato la storia.

Il  sig. LaQualunque      si comporta in modo  qualunquista  che non vuol dire distratto; è attentissimo  ai propri interessi, ai propri  piaceri, alla propria  idea  di “saper stare nel mondo”.

Il mondo è un luogo che ci deve dare soddisfazione, dove la sola legge che conta  è quella che ci siamo data;  sembra che in questo mondo ad personam   dove regna  sovrano  il maschilismo  e l’amore per  il  pilu   tutto  ruoti appunto intorno ad una  incontenibile  attrazione per il sesso; la sola cosa  che conta è  avere merce  femminile  in abbondanza,  oltre che una  famiglia  più o meno regolare  in cui  la moglie  possa garantire quel servizio  costante  che il popolo  delle donne ad ore  non può certo  assicurare.

E poi le mogli servono per fare figli, quei figli che in caso di bisogno possono addirittura salvarci  dal carcere,  magari  facendo risultare queste  ignare e  incolpevoli  creature   le sole perseguibili   delle nostre malefatte.

Ironia della sorte;  fatta la legge, fatto l’inganno; la stessa legalità si mette al servizio  del delinquente,  del truffatore, del parassita,  di quello che  la legge la studia proprio  per saperla raggirare…

Assenza totale dell’idea di Stato, assenza totale  del rispetto delle differenze, assenza totale  del rispetto dei più  elementari  diritti civili, personali e sociali.

Il  nostro vicino di casa  o ci è amico, ossia appoggia  quello che è la nostra visione del mondo,  o  è un avversario da abbattere,       non fisicamente ma  psicologicamente.  L’eliminazione fisica  è sconsigliata perché di difficile  gestione e di non utile  strategia; per un uomo morto come vittima  ce ne sono altri cento dopo di lui pronti a prendere il suo posto…Questo non  accade nel caso della  lotta verbale, condotta  a suon di  convegni, comizi, duelli, confronti e campagne elettorali, dove  vince chi la spara più grossa, chi conquista meglio la platea con le proprie  acrobazie   dialettiche  e   ballistiche.

E poi l’importante è non lasciare nulla all’immaginazione; la gente vuole  avere di che divertirsi, solo questo conta; la  cultura, il sapere, i valori, l’impegno, il senso del dovere, l’assistenza ai più poveri…sono  tutte minchiate,  argomenti  degni del più idiota dei candidati alla poltrona  governativa di sindaco.

Questo attacco metodico e chirurgico alla democrazia  è condotto  non certo senza  degna  strategia; per vincere si possono anche mobilitare  adeguati sostegni   che ci sappiano   garantire il successo,  la riuscita finale,  perché la posta in gioco è troppo alta.  Ci si gioca  la propria terra, il suo immobilismo, il suo stare ai margini della legalità,  il suo non riconoscersi parte di un sistema generale  e  politico  dove contano ancora  l’onore, quello serio, la parola data, quella spesa,  l’impegno sociale,  quello  che fanno di un paese barbaro un paese civile  e degno  di stare  accanto  a chi allo sviluppo dei popoli ha dedicato se stesso.

Eppure   il sig.  Cetto  è persino simpatico, è persino  divertente, ha un  qualcosa  di assolutamente   condivisibile;  è per l’appunto l’uomo della porta accanto,  quello che prima pensa alla propria  pancia  e poi  di nuovo  alla propria pancia…e poi è un uomo che vince, dunque piace; non   si cerchi  di educarlo, di fargli cambiare idea, di trasformarlo, di  convertirlo;  lui è in una sola parola  inamovibile,  sa quello che vuole, sa quello che deve fare, è sostenuto da una schiera fedele  di  fedelissimi  che  riconoscono in lui il loro capo naturale.

Il sig. LaQualunque scende in politica per salvaguardare  la propria sopravvivenza, o meglio, per garantirsi  quelle impunità    che diversamente rischierebbe  di perdere, come per esempio potere continuare a non pagare le tasse, potere avere indisturbato due mogli  o comunque due femmine  sotto lo stesso focolare domestico, potere arricchirsi   al di fuori di ogni regola,  dove tutto  sembra nulla,  nessuna irregolarità  è di fatto  irregolare, perché non si è mai visto  che là dove lo Stato è sempre risultato   assente,  questo stesso Stato  possa avanzare dei diritti sulla nostra vita.

L’unica   colpa  che ancora sembra non sporcare il signore  in questione, è quella  del fare uso o spaccio di droga;  forse è questo  conservarsi in un contesto tutto sommato ancora pulito    che   conferisce al sig. Cettolaqualsiasi    la indubbia  ed  onnipresente  popolarità.

Le regole del sig.  Fatti i cazzi tui     sono del resto  elementari, quasi primitive: la  prima su tutte è quella  del non affezionarsi a nessuno; chi si affeziona è un coglione, è un perdente, è uno  che  non  sa stare al mondo, un emarginato, un perseguitato,  un cattivo esempio  da non imitare.

Le persone sono semplicemente delle proprietà;  impera la legge del dare per avere,  del restituire  per avere  ricevuto,  del rispetto dei ruoli, dove l’unico ruolo   che  conta è quello del capo.

In un mondo siffatto non c’è  pericolo di stare fuori tempo;  il tempo presente  è il solo  degno d’essere vissuto, che non è il cogli l’attimo che fugge,  ma  il  fottiti il prossimo ora prima che sia il prossimo a fottere te…

Esagerazione?  Pessimismo  non giustificato?  Parodia   di un mestiere, quello del   politico, che ormai ha toccato i minimi storici  nel cammino  del nostro giovane  e  glorioso  paese?

Nulla di tutto questo, purtroppo.   Semplice e cruda verità.   Certo,  una faccia della verità,  quella che sembra accettare passivamente e senza reagire questo sistema di vita per nulla degno d’essere condiviso.

Dietro il sig.  Qualunquemente e comunquemente   per certo   esiste  e sopravvive  una folta  schiera  di persone normali  che quando  vanno a votare  non danno  la propria preferenza  a questo partito,  lo schieramento  del   degrado più assoluto, della più desolante perdita  di ogni   punto di  riferimento…ma  ancora  cercano e credono  di potersi migliorare, di potere trasmettere ai propri figli un   senso  per quello che si fa, che si è, che si pensa, che si sceglie…

Il sig. del partito del Pilu, aldilà  del suo potere ricordare qualcuno nello specifico piuttosto che altri…è in una sola parola tutta la nostra classe dirigente  attualmente al governo,  o meglio,  chiama  tutti i nostri politici  a questo vaglio, a questa  osservazione doverosa.

Se poi pensiamo che questi politici  li votiamo noi,  il senso  di colpa  si può gravemente allargare…

Il fatto che il personaggio  in questione  sia  poi un personaggio del sud piuttosto che del nord,  non fa che acuire la tragedia della differenza  di questi due mondi  che abitano dentro la stessa famiglia;   ragioni storiche,  ragioni  secolari, ragioni  politiche precise  che  andrebbero una volta per tutte affrontate  e risolte.

La cosa che più sconvolge, quando si esce dalla sala  dopo la visione del film,  è  una certa vaga e neanche tanto  vaga  sensazione sconsolatrice  …

Un vocina dentro di noi ci dice “Le cose non cambieranno mai”  ed un’altra vocina dentro   di noi ci dice “Però io conosco persone   che non farebbero mai  quello che il sig. Qualunque  farebbe e fa…”

Dunque la speranza è davvero l’ultima a morire…

SEMPLICEMENTE…IO CI SONO…E TU?

Gli insegnanti che lavorano,amano, producono,costruiscono,condividono…

LA   LSCF è in scena:   un mondo tutto da  continuare  a  scoprire…

INSEGNARE AI PIU’ POVERI

Gli insegnanti raccontano il loro mestiere

Ecco alcuni brani  di insegnanti che raccontano   di sè…

PRIMO RACCONTO

Imparare dagli insuccessi

Sono un insegnante di scuola primaria da tempo interessata ai temi dell’innovazione nei processi di insegnamento/apprendimento grazie all’uso delle nuove tecnologie. Da alcuni anni sto realizzando esperienze di collaborazione europea grazie allo strumento di partenariato elettronico eTwinning. L’esperienza che mi accingo a narrare  si inserisce  in questo contesto.

Sono i primi giorni di scuola, anno scolastico 2009/10.  Mi trovo in una classe prima a tempo pieno. Alunni di varia provenienza sociale, soprattutto ceto medio-basso,  e varia nazionalità ( 2 rumeni, 1 macedone da poco arrivato nel nostro paese, 1 ungherese) .  Guardo gli alunni muoversi caoticamente nell’aula, con difficoltà riesco ad ottenere che prendano posto nei banchi  e mi prestino attenzione. Cerco di stabilire una qualche relazione  con loro chiedendo i loro nomi. Un bambino si alza e comincia a presentarsi, così via il secondo…Mi accorgo che il bambino macedone non conosce una parola di italiano. Un altro bambino, arrivato il suo turno, mi guarda diritto negli occhi e si  rifiuta di parlare. Questo atteggiamento lo caratterizzerà anche nei giorni seguenti . Un alunno si distingue per la sa vivacità e mi riempie di mille domande. E’ difficile ottenere da lui un po’ di concentrazione e di attenzione nelle varie attività proposte. Il livello di motivazione nell’apprendimento da parte della classe è quasi inesistente.

Mio Dio che fare in questa situazione? Ed ecco mi viene in aiuto la mia precedente esperienza di partenariato europeo. Comincio a pensare e progettare un attività di collaborazione con  scuole appartenenti allo stesso paese di origine degli alunni presenti in aula.

Il giorno dopo presento l’attività agli alunni.

–          Bambini, dal momento che ci sono alcuni compagni provenienti da altri paesi vi piacerebbe conoscere meglio il posto da cui arrivano?  Lo possiamo fare mettendoci direttamente in contatto con  i vostri coetanei che vivono lì  –

Gli alunni mi guardano interdetti.

 Nei giorni successivi organizzo una videoconferenza con una scuola rumena in cui si parla l’italiano. Noto con mia grande sorpresa un grande entusiasmo. Tutti hanno voglia di parlare, tutti hanno tante cose da dire e da raccontare.  In questo modo si sentono più importanti, assumono un ruolo da protagonisti.

L’esperienza realizzata funge da stimolo e catalizzatore  anche per gli apprendimenti successivi. L’idea di dover scambiare con gli altri alunni le proprie conoscenze ed esperienze stimola anche coloro che sono inizialmente restii ad apprendere ad impegnarsi e dare il meglio di sé.

Maria Teresa Carrieri

SECONDO RACCONTO

Recuperare il tempo perduto

Anche questo  è un racconto breve; non è il racconto di una buona prassi didattica, è il racconto della mia prima esperienza di insegnamento  che credevo non avrei più  né riconsiderato né tantomeno reso pubblica.

Allora avevo solo vent’anni , uscivo fresca dal magistrale,  e mi fu assegnata  con incarico annuale  una classe di seconda elementare durante l’orario  del doposcuola.

Era il 1979; un periodo in cui il mondo  scolastico, soprattutto quello   elementare,   era ancora  incatenato  a regole burocratiche e gerarchiche  ferree  ed indiscutibili.

C’era ancora il maestro unico, quello del mattino, di serie A,  e quello del pomeriggio, di serie B.

Ricordo la mia classe con nostalgia e con dolore, nello stesso tempo;   la rendevano  diversa da tutte le altre la presenza nello specifico  di tre fanciullini; non ricordo più i nomi di nessuno, ma i loro  li ho impressi  nella memoria  a marchio indelebile.

Uno di  loro, Davide,  era affetto  da problemi   legati alla  crescita (soffriva di nanismo…),  e probabilmente questo gli creava  anche disturbi nel comportamento;  quando veniva assalito da raptus  di  nervosismo, dal basso   del suo  metro  d’altezza  afferrava  il primo banco che gli capitava e lo lanciava  nel vuoto…

Durante le feste natalizie  sua madre fu l’unica a presentarsi con un  piccolo  regalo, una carriola di legno dipinta di blu   decorata di fiori secchi…era il suo modo di dirmi: “Lo so che mio figlio  è indisciplinato, ma dovete avere pazienza con lui…”

Il secondo  di questi miei alunni speciali  era  normalissimo sia nella crescita fisica che nella crescita psico-intellettiva, aveva il solo torto  di appartenere ad una delle tante famiglie di  meridionali  trasferitisi al nord  che  era affiliata  a culture malavitose   e   comunque  a quel genere sbagliato   di intendere  la giustizia.

Amava  fare il bullo, veniva a scuola con un piccolo serramanico  nella cartella e lo esibiva  sfoderando un sorriso  provocatorio,  che già poteva vantare delle piccole carie visibili  e di certo  la più totale assenza di igiene;  lo faceva   più per  farsi grande  all’interno del gruppo classe, davanti ai compagni,  che per altre evidenti  e secondarie  intenzioni.

E’ stato quello che mi ha fatto più tribolare,  quello che  più di tutti  amava provocarmi, senz’altro  psicologicamente   più grande dei suoi  sette anni;  quando voleva  dimostrarmi  tutto il suo rifiuto della scuola,  usciva con espressioni del tipo: “Lo sai che io ho un cugino grande e grosso  che  può venire a scuola   solo se io glielo chiedo?”

Il terzo di questi tre  campioni  di infanzia, Luca,  era il meno problematico, soffriva solo di una leggera   affezione poliomielitica,   e dunque  la sua faccetta  dolcissima con gli occhi azzurri ed un biondo caschetto  morbido contrastava  tristemente  con il suo incedere  leggermente  anchilosante…

Sarebbe stato  un bambino  senza problemi di comportamento,  se solo non ci fossero stati gli altri due o quantomeno il secondo, Massimo,  che invece lo coinvolgeva  nelle sue spedizioni  inutili  e ribelli.

Gli altri erano bambini normali, con alle spalle  famiglie più o meno normali;  in classe non mi accorgevo nemmeno d’averli (per fortuna,  perché tutta la mia attenzione  veniva rubata  dai  miei  prediletti…)

La giornata tipo era la seguente: arrivavo a dare il cambio alla maestra del mattino  durante l’orario della mensa; è quel momento  che  i bambini hanno la massima frenesia addosso, dopo una mattina intera   passata incollati  sui banchi a fare la lezione  che conta;  la mia collega nemmeno  la incrociavo, lei se n’era già andata, e l’unico momento di copresenza  era quello del sabato mattina.

Diciamo pure che la copresenza  era più immaginaria e teorica che reale;  a fatica si poteva  scambiare  qualche  contenuto  serio  sul problema classe che potesse superare la frase  con qualche  battuta.

Non parliamo poi del programma; lei gestiva Il programma,  io  facevo eseguire nel pomeriggio   i compiti  che lei aveva assegnato…

Possibilità  di programmazioni collegiali, interdisciplinari o quant’altro?  Pura fantascienza.

Possibilità di avere insegnanti  di sostegno?  Non erano previste per queste tipologie di  deficit. Non avevo bambini  sordi o muti o ciechi o  spastici;  avevo solo bambini  difficili, che esprimevano tutto il loro disagio   al quale io avrei dovuto sapere  dare delle  risposte.

Il  direttore scolastico credo di non averlo mai personalmente  incrociato;  ricordo di più  la presenza della segretaria, una donna anch’essa  meridionale,  come il 70% della  popolazione  scolastica di quel circondario  suburbano e periferico, dalla presenza energica ma anche molto  autoritaria,  che di didattica poteva intendersene   esattamente come io mi posso intendere  di  astronautica…

Quell’anno  aveva avuto la nomina con me  anche  una mia vecchia compagna  di scuola delle elementari,  figlia di una tradizione  insegnante  visto che aveva altre due sorelle che facevano da anni le maestre.

Lei aveva  la possibilità di interagire  con la docente del mattino; c’era una buona collaborazione, e  non aveva in classe casi difficili  come i miei. Portava avanti  tutto un programma  ruotante  intorno  alla favola di Pinocchio.  Con lei funzionava bene, ma io non avrei potuto  inserirlo  nella mia;  io non stavo nella sua testa, non stavo nella sua classe,  non avevo il suo approccio, ed il problema   era che io ho cercato per tutto l’anno,  senza riuscirci,  quale potesse essere il mio personale contributo  al mio stare in classe con quei  bellissimi  ed innocenti  bambini che mi erano stati assegnati.

Durante il pasto  i bambini si scatenavano,  o meglio,  più che altro  i soliti  noti;  ricordo di non avere mai perso il controllo,  di essere riuscita per non so quale miracolo  a mantenere sempre un atteggiamento  civile  e  quasi  impavido,  anche di fronte  agli insuccessi  più palesi.

La verità è che mi sono sentita impotente;  mi mancava l’esperienza, mi mancava il confronto, mi mancava  l’incoraggiamento, mi mancava  l’esempio.

Finita  la mia giornata lavorativa  ero praticamente distrutta ( e depressa),  senza  essere riuscita a fare nulla che mi avesse portato soddisfazione.

Mi sono data delle colpe che probabilmente non avevo; mi sono scoraggiata  e non sono più tornata ad insegnare.

Solo adesso, dopo praticamente una vita passata   a  fare altro,   mi rendo conto  lucidamente  e spassionatamente    che avrei dovuto insistere, che non avrei dovuto mollare.

Non mi è mancata la scuola in tutti questi anni,  mi sono mancati i bambini  o i giovani  che possano essere, con la loro spontaneità, con la loro allegria  e con il loro disperato bisogno di essere compresi…

A volte  basta  il sorriso di un  fanciullo  che  ti dimostra   la sua riconoscenza  per averlo aiutato nel suo piccolo/grande   problema, a rendere solare la giornata più uggiosa.

Una  voce dentro di me continua  a  bisbigliare insistente:  “Recupera la tua dimensione di maestra mancata, di maestra  fallita, riprendi il tuo cammino così insensatamente  interrotto,  rimettiti alla prova,  così  come  è giusto che sia.”  Ed è quello che io intendo fare.

In  quanto alla mia amica, lei dopo vent’anni  di duro lavoro dietro la cattedra, ha mollato; ha mollato per sfibramento,  perché insegnare è un lavoro  duro, impegnativo, rigoroso, complesso,  ma che richiede quel briciolo  di poesia  e di immaginazione   che nessuna disciplina e nessun senso del dovere possono dare.

 Antonella

TERZO RACCONTO

LA PRIMA ORA DI INGLESE

La prima lezione in prima superiore è un momento delicato; è la “lezione-radice”, quella che imposta un’atmosfera.

Quest’anno mi hanno spostato al liceo classico, quindi so già che quanto meno si tratterà di ragazzini motivati e disposti al lavoro. Sono fortunata!

Però.

I ragazzi arrivano sempre meno preparati in inglese, o forse – più precisamente – la preparazione è sempre più eterogenea: il bravo e chi non ha capito nulla, fianco a fianco (qualche giorno dopo, il test d’ingresso confermerà).

I miei due nemici si chiamano Scoraggiamento e Noia, quelli che “Cosa-perdi-tempo-con-me, sono-un-caso-perduto” e quelli che “Oh-no, ancora-con-gli-aggettivi-possessivi”.

Li saluto allegramente, li guardo per bene e afferro il mio primo strumento magico: l’elenco dei nomi. Leggo ad alta voce lentamente, alzando gli occhi e osservando bene ogni viso. Mi assicuro di pronunciare correttamente tutti i cognomi. Vi vedo. Esistete. Vi faccio spazio.

Li avviso che non ho buona memoria. Ci metterò molto tempo a imparare i visi, i nomi. Dovranno avere pazienza  con me.

Partono le prime risatine imbarazzate.

Li avviso che comincerò l’inglese daccapo (i pensieri si fanno visibili: “Fiiiuh, menomale!”  “Oh, che noia!!!”), ma non sarà come hanno già fatto, ci metterò qualcosa di nuovo (“????”). Cominciamo subito.

“How are you?” chiedo al più vicino.

(“Beh, questo è facile!”) “Fine, thanks”.

Mi sposto di un banco. “How are you?” chiedo.

“Fine, thanks”.

Mi sposto di un banco. “How are you?” chiedo.

“Fine, thanks”.

Mi sposto di un banco….

Al sesto allievo sono perplessi: la prof è per caso idiota?

Immobili, mi guardano con gli occhi fissi.

Mi fermo e li guardo. “Mettete che è una di quelle mattine… Vi svegliate stanchi, il latte è finito, il cane vi ha mangiato gli appunti e perdete anche l’autobus. Arrivate a scuola e la prof vi chiede: How are you? Fine thanks.”

Risate. Perdono la fissità, muovono la testa, le spalle, si guardano fra loro, sorridono imbarazzati, aspettano.

“Ora vi do qualche alternativa”. Riempio la lavagna di frasi, accanto ad ogni espressione una faccina allegra, o corrucciata, o neutra.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               

“Ora ricominciamo. How are you?”

Ora mi guardano negli occhi, mi sorridono, scelgono e mi rispondono davvero.

Inglese adesso è comunicazione. L’anno può cominciare!

Lucia Bartolotti

QUARTO RACCONTO

L’INSEGNAMENTO DELLA MATEMATICA IN UN ISTITUTO PROFESSIONALE.

E’ dal 1985 che insegno nello stesso istituto professionale. Ci sono capitata per caso; era l’unica cattedra disponibile in città quando ho avuto l’assunzione a tempo indeterminato. Io, ex studentessa di liceo classico, laureata in matematica, non conoscevo quel mondo scolastico fatto di ore di teoria ma anche di materie pratiche ( e a quell’epoca erano tante per gli studenti…).

Da allora, non ho avuto voglia di venire via— anzi ho cominciato a collaborare in vari progetti, orientamento, passaggi e tutto quanto può favorire l’autonomia e lo star bene dello studente nella “mia” scuola.

Sono insegnante di matematica (la materia… più odiata dagli Italiani…). Dai primi tempi, in cui facevo una didattica molto tradizionale e rispettosa dei formalismi (proprio come si addiceva ad una docente di una materia così rigorosa…), mi rendo conto che il mio modo di far avvicinare i ragazzi (sono tutti maschi!!!) alla matematica è notevolmente cambiato.

Non voglio dire con questo che ho abbassato i livelli; sono dell’idea che la scuola deve fornire delle competenze di un certo livello e non deve fare troppi “sconti”…  Quello che è cambiato (e lo vedo dal confronto dei testi delle verifiche  che preparavo anni fa  e che preparo adesso…) è il mio modo di insegnare la MATEMATICA.

Nel mio istituto la matematica è una materia basilare, ma i ragazzi fanno fatica a collegare i concetti matematici che incontrano nelle materie tecniche con gli stessi che affrontano nelle ore “canoniche” della mia materia.

Ho imparato a fare schemi alla lavagna, a dettare appunti dei vari argomenti, a far lavorare in coppia i ragazzi, a “tagliare a fettine” le nozioni e ad usare un linguaggio semplice ma preciso, a fare collegamenti con quanto i ragazzi studiano  nelle altre materie tecniche quando è possibile, a ritornare più di una volta sui concetti per migliorare la loro comprensione ed acquisizione. Ho imparato a spiegare il significato di cosa voglia dire imparare la matematica, a cosa può servire nella vita, a non limitarmi all’esposizione “asettica” degli argomenti.

Ogni tanto mi sento dire: “ Proffe, ma cosa serve a me che farò l’elettricista, saper risolvere le equazioni di secondo grado?”.

E poi… per me un docente deve dare ai propri studenti gli strumenti per vivere nel mondo come una persona consapevole e responsabile, critica e partecipe. Gli studenti del mio “mondo” sono persone spesso svantaggiate, per provenienza geografica o contesto territoriale. Sono persone che si considerano spesso inferiori ai loro coetanei che magari studiano in un Liceo, o anche solo in un Istituto Tecnico La scuola dovrebbe servire a loro come “riscatto”. E la relazione è fondamentale. E’ importante che sappiano scomporre un polinomio, ma anche che con la matematica si impara un metodo di lavoro, di impostazione e di risoluzione di problemi. Come elettricisti, i miei studenti, prima di fare un impianto elettrico , dovranno progettare  e pensarne la realizzazione.

A volte mi sento un’assistente sociale, ma al tempo stesso mi accorgo di volere bene a queste persone fragili, talvolta refrattarie a qualsiasi forma di “cultura”; sento di lanciare dei semi e come me altri colleghi con cui lavoro da una vita e con i quali ogni tanto mi sorprendo a parlare nella ricerca costante di un senso al LAVORO che facciamo ogni giorno in prima persona.

Renata Rossi

Seguiranno  altri appena li avrò da condividere…fonte  di riferimento   LSCF di Gianni Marconato

23 gennaio, nel cuore dell’inverno…per chi suonerà la campana?

Vogliamo essere realisti? allora ditemi se nella nostra società conta più apparire o essere…Ma poi non dobbiamo pretendere di poter criticare come se noi fossimo estranei alla questione…

Questo e’ quello che l’uomo/la donna    medio/a    vota,   compra   o  sogna.

Secondo  la tua riflessione, perchè? Perchè vince, o sembra vincere,    lo sballo, la festa a tutti i costi, il lusso, il facile, l’eccesso, il messaggio che  vuole dire: “Io mi diverto, l’importante è divertirsi o  far credere  che  si è vincenti…”

E se è più apparenza che sostanza, perchè  questo non emerge a chiare lettere da parte di chi  vuole urlare al mondo la propria   verità?  cioè che la gente comune  non è affatto così imbecille come  si vorrebbe  far credere?

Le immagini e la luce

Dove sta lo scandalo?

 

Scusate amici carissimi, di questi tempi parlare di sesso/sentimento  va di moda, forse potrebbe essere  solo per questo che ne parlo molto sul mio blog…ma non è vero, ne parlo perché l’amore è il motore del mondo.

Qualcuno direbbe  che è la giostra il motore del mondo, ma non voglio  scendere in questi particolari che lascio ai discorsi d’osteria o ai buoni salotti  borghesi…

Qui non siamo né in un’ osteria, né in buon salotto borghese; sono solo qualcuno    che  cerca di tradurre in parole i propri pensieri  nell’intento di generare qualcosa di buono e di costruttivo in chi mi legge. Spesso scrivo e faccio scrivere   anche per me stessa, anzi  praticamente sempre; scrivere   o fare scrivere gli altri   è un gesto che mi rilassa, mi rigenera, mi conforta, mi aiuta a capire, e forse per questo  c’è qualcuno  che mi legge, perché trova  positivo  quello che qui  si può trovare  raccontato.

Ma veniamo al punto: il punto è  che  i fatti accaduti al nostro premier  coinvolto in un fatto  pressoché indicibile di  prostituzione minorile , oltre  rischiare di mettere  in crisi un intero sistema politico,  la dice lunga sull’importanza sociale  e non solo personale    di sapere coltivare sentimenti equilibrati e sani.

Non è mia intenzione inveire contro un individuo che io né ammiro né disprezzo; almeno non disprezzo più di molti  altri meno noti e meno chiacchierati  che semplicemente hanno meno  colpe solo perché hanno meno talenti e meno attenzione da parte dei mass-media.

Insomma,  è purtroppo vera la  logica che i grandi errori stanno dietro  ai grandi  uomini, ed il signor Silvio Berlusconi è stato (il passato è quasi doveroso)  sicuramente un grande della storia, nel bene come nel male.

Credo che qualcosa di positivo l’abbia saputo fare, credo che ora sia nella fase del suo declino (e non sono io solo a crederlo…), credo  che  non ci sia   grande possibilità  di ripresa  per la sua credibilità  politica e non solo,  ma detto questo non intendo dire  che il premier  sia stata la   sola  vera  rovina  del nostro paese.

Metre che lui avrebbe commesso ogni genere di nefandezza, dove stava la classe politica che avrebbe dovuto ostacolarlo?

Non getterò  dunque  pietre addosso ad  un politico oggi più morto   che vivo (anche se sembra che i sondaggi lo danno ancora  nel gradimento popolare che  ritiene  ogni scandalo mosso verso di lui  solo una manovra per destabilizzarlo);  lascio questo passatempo vile  e  ridicolo  a chi non ha di meglio da fare e a chi lo pratica perché non sa fare altro, e lo dimostra…La mia sola intenzione è ricollegare l’articolo  precedente che parlava  di sentimenti  veri e sconvolgenti   con questo articolo intitolato  all’uso del corpo come mercificazione ed al degrado del sentimento vissuto  come  futile e menzognero  passatempo…

Non sono qui per gridare dunque  allo scandalo sui recenti fatti di incoraggiamento alla prostituzione minorile; è altrettanto   scandaloso, a mio avviso,  che si abbia una classe dirigente incapace  di fare opposizione a questo  degrado  etico generale  ed universalmente  condiviso.

E’ altrettanto   scandaloso  che ancora oggi ci siano realtà culturali    che impongono ai propri figli matrimoni di convenienza  dettati da leggi  estranee  al sentimento amoroso;  è scandaloso  che  non si sappia educare i nostri giovani ad una sana sessualità, per cui  sarebbe  giusto  avere i propri  primi   rapporti  ad un’età adeguata e solo per amore, non per gioco,  perché lo fanno tutti   o per fare “esperienza”, o per aver successo in modo facile.     E’    scandaloso  che la Chiesa ancora sia arroccata  all’uso  solo eccezionale dei preservativi,  non rendendosi conto che così facendo   esclude  se stessa  dalla comprensione dei   giovani che solo il sale della terra.  E’  scandaloso  che  la scuola non sappia  adeguatamente  assolvere al suo compito di educare all’affettività,  in parallelo alla famiglia  che sembra navigare in acque assai confuse…

Questo è ancora scandaloso: che non ci siano strutture adeguate al sostegno delle dinamiche familiari, è scandaloso che non ci siano  affitti ragionevoli e che non ci siano posti di lavoro  per chi chiede  di entrare  nel  sistema  produttivo. E’ scandaloso che ci sia l’arte imperitura del ladrocinio legalizzato e che chi  più ruba più è lodato e riconosciuto dal sistema.

E’  scandaloso che si pubblicizzi  in ogni dove  ed  ai più alti livelli  l’immagine di una donna-oggetto  che pur di avere successo è disposta  alla propria mercificazione, e che pur di rimanere sotto i riflettori è disposta a rendersi un mostro di silicone piuttosto che accettare le proprie rughe  che possono e devono  essere comunque  serenamente accettate.

E’ scandaloso  che  ancora si possa  morire per amore, o meglio,  per non avere potuto scegliere in piena libertà.

Ecco perché   parlare di sentimenti  è necessario,  è doveroso,  è attuale,  è  urgente;  siamo fatti di cuore, tempo e mente  e   dobbiamo ascoltare il cuore, governare il tempo, sviluppare  la mente.

Né la scuola né la famiglia né altre strutture sociali alternative  si sanno occupare in modo serio di queste  priorità; la scuola pensa solo o per lo più  a trasmettere saperi come se fossero codici   ingessati; la famiglia  pensa solo  o  a proteggere  nel modo sbagliato   figli  che crescono senza il senso del dovere e della fatica,  o ad   ignorare  figli  che crescono e che chiedono presenze;  le altre eventuali   strutture  sono solo presenze   formali    più preoccupate della loro sopravvivenza che del loro  ruolo.

Ma ci può essere un modo diverso di fare scuola, un modo diverso di essere una famiglia, un modo diverso  di fare società.

Dove possono stare  le folle di persone  che si sentono parte di un tutto?  Dove sono i treni affollati  di viaggiatori   che si chiedono  dove sta la verità, dove sta il bello?

Esistono realtà specifiche dove gli insegnanti  non badano al risparmio di energie  per  andare incontro al loro mandato; esistono famiglie  che  hanno voglia di riflettere sui propri errori e sulle proprie  realtà relazionali  pur  di arrivare a comprendersi e a darsi consiglio, e lo fanno  con qualunque mezzo, ad ogni costo;  esistono comunità  che sorde  ad ogni  avversità  proseguono imperterrite  verso  il proprio  compito;  purtroppo  semplicemente non se ne parla,  non abbastanza,  non si fanno trasmissioni su queste  problematiche,  non si intervistano   le  varie  realtà  dando la parola ai diretti protagonisti,  non si fa televisione di cronaca quotidiana,  si è perso il gusto della narrazione e della testimonianza, perché possa emergere trionfatrice  il senso  del “nulla è importante, se non avere il proprio attimo di gloria”…

Dunque cultura del nulla, del consumo spazzatura, del vivere senza uno scopo e senza progetti degni di una certa serietà.

Piuttosto io mi domando anche: “Ma se esistono tante brave persone che si impegnano, che sono serie,  che vogliono stare fuori dal coro,  che resistono ad ogni forma di corruzione e di degrado collettivo,  che sono disposte a    farsi autocritica,  perché questa loro presenza non riesce ad emergere  dando segnali  significativi  e  visibili?”

Forse perché non vuole farlo,  forse perché  in questo contesto vitale conta più il fare che lo stesso  raccontare, forse perché nessuno  va da loro  a chiedere: “Raccontami la tua vita, potrai   essere  ascoltato  e  sarai d’aiuto  a  chi  sta vivendo le tue stesse  esperienze…”

Forse perché è anche altrettanto bella e vitale  la cultura del silenzio,  del vivere nella segretezza, nel riservo,  e forse perché  si temono le reazioni  degli altri,  che possono equivocare, che possono usare le informazioni  ricevute per scopi poco onorevoli…perchè si è disgustati da tanto  marciume, da tanto  appiattimento…

In  conclusione,   non si può  stare comunque  tutto il tempo  in  sottocoperta;  uno deve pure  agire  senza  reticenze  e senza  condizionamenti,  se si  vive  in uno stato  democratico, evoluto   e  di diritto. Uno deve pure decidere qualcosa nella vita. E deve ricorrere alle leggi  che possono garantirgli   l’assoluto rispetto,  quali    alcune  sopra tutte,  la legge della tolleranza   e dell’ascolto.

Ascolta il tuo spirito: narrazioni di vita

 

Innamorarsi è un’esperienza sconvolgente   e non sto parlando di sesso,  e nemmeno per esperienza diretta;  sto parlando per riflesso   di  quando incontri qualcuno  che senti essere fatto per te  in maniera insostituibile,  assoluta,  improrogabile.

Comprendo che in tal modo  ci si può sentire indifesi e non disposti  a buttarsi  senza le dovute considerazioni  allo sbaraglio; ma è anche vero  che quando una cosa simile accade nella vita di una persona,  questa persona non la può ignorare, non può voltare la faccia altrove come se nulla fosse successo.

Non è anche a voi, amici carissimi, successo questo nella vostra vita?  Avete anche voi incontrato qualcuno  per cui vi siete detti “Se non lo conquisto  io avrò finito di vivere…”

No?  non fino a questo punto? Lo avete  pensato ma poi è finita male? Vi eravate sbagliati? Vi siete dovuti ricredere?

Può essere, può essere che ci si possa sbagliare, chi può dirlo;  non c’è certezza di nulla, meno che meno nelle faccende di cuore…ma  l’assenza di certezza non è una buona  ragione per buttare tutto al macero,  per dirsi fin dall’inizio   “Non illuderti, è solo una infatuazione, passerà,  non dargli peso,  ci sono troppi problemi,  ma chi te lo fa fare, non hai speranze, ti stai  sbagliando, è solo un fuoco di paglia…”

Si nasce con uno spirito ben preciso ed ognuno deve seguire il proprio   spirito.

Se si venisse meno alla propria   natura  si  verrebbe meno  al proprio  scopo e venendo meno al proprio   scopo   ci  si autodistruggerebbe, ed  è come se si   accettasse verso di sé   una forma di eutanasia.

Innamorarsi dunque è una cosa estremamente seria e da prendere    in considerazione; innanzitutto perché  è un  qualcosa  che non si può programmare, per cui o la prendi  quando arriva o perdi il treno; in secondo  luogo perché è una cosa  che migliora l’esistenza,  magari la sconvolge, ma la sconvolge per migliorarla, perché la persona innamorata ed ovviamente ricambiata  trova nel reciproco  sentimento la forza per  progettare  mille altre cose  che  vengono alimentate  da questo stato  di grazia.

Purtroppo mi vengono in mente  realtà di sentimenti malati,  che si sono proclamati  forti ed assoluti ma erano solo patologici. 

Come distinguere le due possibilità? Come saperle  riconoscere in tempo? E’ abbastanza   semplice, attraverso la reciproca conoscenza;  conoscendosi, frequentandosi, convivendo, ecc… si  scoprono  i punti deboli  dell’altro, gli  eventuali aspetti    affatto  positivi,  ai quali  però poi si può  rimediare  opponendo  a   situazioni  senza soluzione  scelte altrettanto  radicali.

E’ facile lasciarsi andare al sentimento  iniziale  che   molto banalmente  e molto  stupidamente chiamiamo amore,  ma poi l’amore deve misurarsi  con  la realtà.

E’ pur vero  che non c’è coppia  più bella di quella che  senza  timore va verso  la propria  avventura, donandosi totalmente senza riserve.

Il fatto è che spesso nelle coppie non esiste il donarsi totalmente;  come ho già detto altrove, credo che il 95% delle unioni coniugali e non ,   poggi  sostanzialmente  su relazioni di convenienza,  di paura   o   di abitudine.

Possono essere relazioni  di convenienza quelle per cui si sta con l’altro solo per i benefici  che ci procura; le relazioni fondate sulla paura sono relazioni in cui uno dei due partner tiene  in ostaggio l’altro, sotto una forma di ricatto; le relazioni  scadute nell’abitudine sono forse le maggiori, quelle   che nemmeno  più si chiede  perché stare     insieme,  semplicemente  come non ci  si chiede  perché mai  si dovrebbe  cambiare  la cucina  anche se ormai è diventata vecchia…Le tre forme possono coesistere, ossia nella stessa  relazione può esistere l’interesse, il ricatto e l’abitudine…

Nell’amore assoluto, l’amore bello, come recita una poesia lanciata in questo blog,   si parla  dunque  di chi ha il coraggio, la coerenza  e la generosità  di lanciarsi  nel rischio;  il rischio di cadere, il rischio che il paracadute alla fine non si apra, e l’atterraggio  possa diventare una sciagura.

Allora parliamo di cose concrete e non di astrazioni sentimentali che lascerebbero il tempo che trovano; parliamo di coraggio, di coerenza  e di generosità.

Il coraggio è una virtù tipicamente maschile, mi spiace doverlo dire perché potrei sembrare razzista e discriminante,  ma   è un fattore biologico, credo,  dovuto proprio alla configurazione  psicofisica  del maschio  che differisce dalla configurazione psicofisica della femmina.

Il maschio è fatto per difendere/conquistare (da qui il coraggio), la femmina è fatta per  nutrire (da qui l’accoglienza).

Dunque  trovare una donna che dimostra coraggio è una cosa abbastanza rara, sicuramente pregevole;  probabilmente si tratta di personalità femminili  fortemente androgene,  dove la forma mentis  è più tendente  all’agire  tipico dell’uomo che non della donna.

La coerenza  non rientra in questo discorso;  può appartenere in egual misura ad entrambi i sessi;  piuttosto occorre aggiungere  che è una virtù invece molto rara; è rara  perché nessun sistema sociale e pubblico  ce la insegna, nel senso che nessun sistema  sociale e pubblico la esercita a pieno titolo; la coerenza  è una scelta che si annida nei singoli, nelle specifiche persone, per cui  si può dire che  “Mario è stato coerente, mentre Davide  lo è stato solo in parte…”

La coerenza è oltretutto  legata al coraggio, quindi è di nuovo  assai  molto poco frequentata perché lo stesso coraggio  è una virtù  di  persone speciali  che   compiono atti coraggiosi con assoluta naturalezza ed apparente  leggerezza…

La  generosità   è infine  la terza dote  verso la quale  un buon  70% dell’umanità   rimane fortemente in difetto.

Per essere generosi occorre essere equilibrati e sicuri di sé;  il  rischio maggiore  in fatto di generosità è di scambiare  il calcolo  per fatuo generosismo.

Molte persone amano prodigarsi pubblicamente con il  prossimo;  lo fanno  per apparire, per  sentirsi  riconosciuti,  per mettere a posto la loro coscienza,  o per altre ragioni simili  tra le quali  manca il vero spirito generoso.

L’essere generoso  dona anche contro il proprio interesse,  si sacrifica per il beneficio dell’altro, si espone anche al fraintendimento  delle critiche non meritate  pur di garantire  però  il vantaggio  del suo prediletto o dei suoi prediletti.

E’ ovvio che ci sono vari gradi di generosità;  a secondo  di quanto il sé si priva a beneficio  dell’altro  può esserne misurata  la grandezza.

Di certo anche l’essere generosi è legato  al sapere  donarsi;  la generosità  ci permette  d’essere  disponibili,  di non recriminare ad ogni piè di passo, d’ essere sostanzialmente ottimisti, d’ essere  persino contro la nostra stessa natura, qualora  la nostra indole dovesse spingerci  per  carattere alla prudenza  ed alla parsimonia  che spesso diventa  eccesso  di  autocontrollo.

Avete visto, amici  carissimi,  quante verità nascoste nel senso di sottintese stanno dietro all’esercizio  banale e scontato  dell’amore?

Banale nel senso  che  troppo spesso si spende questa parola   che ormai ha perso  ogni  credibilità  nel comune  sentire;  scontato  nel senso  che   si tende a dare per  certo qualcosa che  nemmeno ha da nascere, ha da venire, ha da essere pronunciato…

Concludo questo piccolo articolo  solo con questa  ultima riflessione;  quando incontrate qualcuno che vi sconvolge il cuore,  non lasciatelo andare via, ma se vi doveste accorgere che lui o lei non vi merita e che non è quello che sembrava essere,  allora  non esitate a ricredervi, senza dispiacervi  d’averci   provato, d’averci creduto,  perché  voi sarete state e rimarrete  persone  vere,  lui o lei che fosse  si sarà qualificato  per  persona  mendace  ed inaffidabile, affabulatrice  di  mezze cartucce,  saltimbanco   di porto  e di  paesi  a aperdere.  Un vero   truffatore    della peggior specie…e che Belzebu l’abbia in gloria…

Vi abbraccio con affetto

LA SVOLTA

 

     

LA SVOLTA

Io non avrei voluto

sarei stata sempre la stessa

Come nel mio cuore che non cambia mai

Perché i sentimenti  sono sempre gli stessi

Immutabili

Io non volevo

Non l’ho calcolato

Non l’ho progettato

Non l’ho voluto

Ma era già scritto che accadesse

Non so chi ne avrebbe colpa

Credo nessuno

Credo né tu ne io ne altri

O forse un po’ tu un po’ io un po’ gli altri…

Io  volevo e voglio solo una cosa

Stare nel posto giusto al momento giusto

Sentire il mio nome pronunciato con amore

E non altro

Io non tradisco quello che non c’è

Non abbandono quello che non ho avuto

Non cambio senza ragione

Non  mento per negligenza

Non discrimino  per non avere rimorsi

Non  odio  per non farmi male…

Io solo  vivo

Come si può vivere la vita

Con spontaneità

Con coscienza

Con coraggio

Con coerenza

Con  chi la pensa come me

E vive come me

Pur essendo diverso

Uno spazio si chiude perché uno si possa aprire

E la vita continua

Non si spezza

Nessuno di noi sa quello che potrà essere domani

Bisogna avere  fiducia anche quando tutto sembra crollare

Sbirciare  fin nelle pieghe  più recondite

Per  intrappolare il filo  che rimaneva nascosto

Ed andare avanti

Dove tutto è diverso

Eppur qualcosa  non  è mutato

Dove tutto  è nuovo ed incerto

Ma fondato su  solide mura

Mura  che non  crolleranno mai

Sentimenti che non temeranno il tempo

Luoghi  che  saranno la nostra solida    dimora

Io oggi   non ho altre parole

Non ho altre voci

Non ho altri  suoni

Da regalarci…

Luciana

Mi basta il cuore

 

Per sentire la tua  voce

Devo ammutolire  ogni battito diverso

Per rivedere i tuoi occhi 

Devo buttare a mare tutta la zavorra che m’annebbia

Ma  per ricordare  che ancora  ci sei

Che sei quello che ho lasciato e non un altro

Non mi servono tutti i libri del mondo

Mi basta il cuore

Parlo agli uomini che non si sono amati

O che l’ hanno fatto distrattamente

Parlo ai loro cervelli semivuoti

Eppure  intelligenti

E dico loro che

In tutto questo tempo avrei voluto essere stata altrove

Dall’altra  parte del fiume

Dove mi si racconta

Non è mai arrivato l’odore della lotta  inutile

Anche se   trovo comunque prezioso

Questo letto d’umanità traballante

Immaginando sempre la sua possibile rinascita

Oggi 

Costruisco  ponti che non si dovranno   mai spezzare

Perché  possano avere  la loro dolce sistemazione

Dopo tanto ridicolo e futile baccano

E  Violento  opposizioni  che non vorrebbero   capire

Ma solo ormai  per poco tempo e spazio…

Perché quando alzo lo sguardo

Vedo i girasoli a capo chino che lentamente

Stanno alzando la testa

Ed il mio cuore è come pazzo di desiderio di tenerezza

Anche se non c’è colore  ancora

In  questo luogo   strano di passaggio

Come quando si è appena arrivati

In un  paese nuovo

E si attende di finire il tragitto per strada

Di aprire la stanza

Di fare entrare la luce

Sappi che io ci sono sempre stata

Nel frattempo

Perché dove c’è sincerità e giustizia

Là vive la nostra contentezza

Antonella

Domani

E  allora  parliamo  della passione.

Dicasi  passione tutto quello che ci risulta di grande gradimento, di grande predisposizione d’animo, verso la cui attività  ci si sente irresistibilmente attratti.

Prima conclusione obbligatoria:  avere una passione  rende più piacevole la vita.

Ma ne siamo  proprio sicuri?  E tutte le passioni  malsane  che  ci porterebbero  su di un percorso assai scivoloso  e  contorto?

Ovviamente  queste stesse   andrebbero di contro evitate, messe al bando, o nella migliore delle ipotesi,  tenute sotto rigido  controllo.

Seconda conclusione obbligatoria:  avere una passione  vitale  e non malsana rende  più piacevole la vita.

Ma ne siamo proprio sicuri?  Le passioni servono solo  a  produrre piacevolezza, o non sono forse in un senso più profondo vere e proprie necessità, vere e proprie  pulsioni che se non cercassimo di ascoltare   ci distruggerebbero e   ci renderebbero   la stessa  esistenza    gettata  su di un dirupo? E non sono forse le stesse passioni  veri e propri  sacrifici di sé  alla cui dedizione  offriamo il nostro tempo, il nostro cuore e la nostra mente?

Terza  conclusione  obbligatoria: avere una passione  può rendere  drammatica e nello stesso  tempo più piacevole  la vita.

Osserviamo,  amici carissimi, la coesistenza  di dramma e di piacere:  nulla di nuovo sotto il sole; non è forse nell’orgasmo  sessuale medesimo  che si raggiunge il piacere nell’attimo anche del maggior sforzo?  Non è forse  nell’orgasmo  vitale in genere   che s raggiunge  il piacere  nell’attimo  del maggior impegno, del massimo stress,  quando  nulla  è esattamente  rilassamento  e quiete?  

Ma ne siamo proprio sicuri?   E’ pur sempre  possibile barare, è possibile fingere, è possibile recitare, è possibile mentire, è possibile  girare l’angolo ed evitare lo sforzo…per evitare ogni genere di presunta o temuta fatica, per fugare  ogni genere di rischio.  Ma allora addio  passione, addio  piacere, addio serietà, addio onestà, addio coerenza, addio verità, addio  umanità.

E nessuno di noi vorrebbe un’umanità  che non sapesse più  aderire  come è giusto che sia,  alle proprie  passioni,  perché  esse sono la linfa vitale di ogni germoglio,  la speranza di ogni  difficoltà,  la  forza di ogni  impegno, la certezza  di ogni sentire,  la bellezza di ogni comprensione,  l’occasione di ogni  rinascita.

Bisogna solo decidersi, decidere l’attimo  del cominciamento, che sia quello  giusto, quello che busserà  per l’ultima volta,  perché  non sempre  è domenica.  

La passione vitale   non ha fretta,  non  dà ultimatum,  non intimorisce,  non aggredisce,  non è dubbiosa di sè,  non è mendace, non  è  pretestuosa, non è  presuntuosa;  è solo  se stessa  e chiede solo di vivere  la sua ultima festa,  il suo primo giorno di primavera.

Quando le diremo  di sì  è perché  ci sentiremo  pronti,  e non ci  sarà   bisogno d’altro.  Quando le diciamo di no  è perché non siamo ancora pronti,  e  non dobbiamo  buttarci nel buio  perché ancora  non è arrivato il tempo della luce.

Domani,  domani sarà il tempo della luce.

Aiutami

Aiutami  ad essere me stesso

perchè non voglio essere quello che non sono

a raggiungere l’obiettivo

senza scoraggiarmi

a promuovere sfide  ardite

perchè io sono fatto per cose  grandi

ma anche per quelle piccole

per quelle quotidiane

che non temono di cadere  nell’abitudine

Aiutami

amico mio

io ho tutta la voglia  di farcela

e di sopportare la fatica

e di superare il dubbio

e di non temere le avversità

se tu mi darai sostegno

perchè da questo ramo

che noi insieme  oggi facciamo crescere

sorgerà domani vita per tutti

speranza per tutti

gioia  per tutti

Aiutami

amico  nostro

ad essere me stesso

senza preoccuparti di giudicare

senza perdere tempo a criticare

quello che non può essere giudicato

quello che non può essere compreso

se non amandolo…

Lucia

Elogio della verità

 

Com’è leggera la verità

Quando l’hai detta è come se ti fosse uscito un macigno dallo stomaco

E poi ti chiedi stupito

“Ma perché tacevo?

Perché mi sono obbligato a questa tortura

Solo per   paura di ferire

Chi s’era già ferito  da se stesso…?”

Com’è soave la verità

Quando non è  di  quelle  impronunciabili

È come un passero  che prende il volo

È come  la crisalide  che diventa farfalla

È come  il gallo che annuncia il mattino

È come trovare la casa che  temevi  perduta

E come sentirsi  benedetto…

Com’è preziosa   la verità

Nel momento che   dice solo se stessa

Nuda e cruda

Precisa e puntuale

Determinata  e spoglia

Perfetta e  illuminante

Nella sua semplicità

E la verità  nostra   è questa meravigliosa     gentile luminosa attesissima  e spavalda  primavera…

Gianni

Ciao amore dolce…

 

      

Ciao amore dolce

ciao amore bello

ancora  un poco  distante   ma nel pensiero     nostro

ancora confuso  ma nella forza  nostro

ancora incerto  ma solo perchè bisogna attendere

la nebbia  che si disperde

Sorgi dunque sole

apri cielo  le tue porte  alla  primavera

che possa  ogni titubanza svanire

in un solo istante

e sbocciare questo sentiero vergineo  e antico

colorarsi di colore

perchè sia  solare caldo sicuro ardente

gentile quieto giovane solido

ardito fermo squillante gioioso

come noi

che siamo nel cuore

nel tempo

e  nella mente

una bella  umanità…

Martina   Frangipane

Il geranio

IL  GERANIO

Per la stanza

L’aria umida ed acre

Del   legno antico

La grande specchiera gioca

Col riverbero del sole

Che prepotente  vuole entrare

Tra le persiane socchiuse

E’ semplice  la nostra casa

Un piccolo letto di ferro

Un grande cassettone

Il vecchio armadio scuro

Il camino sempre pronto alla cucina

La piccola tavola  che per magia

Diventa grande

E’ tutto quel che c’è….

Fuori  è l’estate ed io l’abbraccio con tutta la mia gioia

Ma il mio universo è già tutto in queste mura

Spande la luce  tra i geranei alla finestra

Incantevoli

Gran maman

Come te

Antonella dall’omo           giugno 1986

Il filo interrotto riprende a vivere e mai più si fermerà