LA LSCF è in scena: un mondo tutto da continuare a scoprire…
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Ecco alcuni brani di insegnanti che raccontano di sè…
PRIMO RACCONTO
Imparare dagli insuccessi
Sono un insegnante di scuola primaria da tempo interessata ai temi dell’innovazione nei processi di insegnamento/apprendimento grazie all’uso delle nuove tecnologie. Da alcuni anni sto realizzando esperienze di collaborazione europea grazie allo strumento di partenariato elettronico eTwinning. L’esperienza che mi accingo a narrare si inserisce in questo contesto.
Sono i primi giorni di scuola, anno scolastico 2009/10. Mi trovo in una classe prima a tempo pieno. Alunni di varia provenienza sociale, soprattutto ceto medio-basso, e varia nazionalità ( 2 rumeni, 1 macedone da poco arrivato nel nostro paese, 1 ungherese) . Guardo gli alunni muoversi caoticamente nell’aula, con difficoltà riesco ad ottenere che prendano posto nei banchi e mi prestino attenzione. Cerco di stabilire una qualche relazione con loro chiedendo i loro nomi. Un bambino si alza e comincia a presentarsi, così via il secondo…Mi accorgo che il bambino macedone non conosce una parola di italiano. Un altro bambino, arrivato il suo turno, mi guarda diritto negli occhi e si rifiuta di parlare. Questo atteggiamento lo caratterizzerà anche nei giorni seguenti . Un alunno si distingue per la sa vivacità e mi riempie di mille domande. E’ difficile ottenere da lui un po’ di concentrazione e di attenzione nelle varie attività proposte. Il livello di motivazione nell’apprendimento da parte della classe è quasi inesistente.
Mio Dio che fare in questa situazione? Ed ecco mi viene in aiuto la mia precedente esperienza di partenariato europeo. Comincio a pensare e progettare un attività di collaborazione con scuole appartenenti allo stesso paese di origine degli alunni presenti in aula.
Il giorno dopo presento l’attività agli alunni.
– Bambini, dal momento che ci sono alcuni compagni provenienti da altri paesi vi piacerebbe conoscere meglio il posto da cui arrivano? Lo possiamo fare mettendoci direttamente in contatto con i vostri coetanei che vivono lì –
Gli alunni mi guardano interdetti.
Nei giorni successivi organizzo una videoconferenza con una scuola rumena in cui si parla l’italiano. Noto con mia grande sorpresa un grande entusiasmo. Tutti hanno voglia di parlare, tutti hanno tante cose da dire e da raccontare. In questo modo si sentono più importanti, assumono un ruolo da protagonisti.
L’esperienza realizzata funge da stimolo e catalizzatore anche per gli apprendimenti successivi. L’idea di dover scambiare con gli altri alunni le proprie conoscenze ed esperienze stimola anche coloro che sono inizialmente restii ad apprendere ad impegnarsi e dare il meglio di sé.
Maria Teresa Carrieri
SECONDO RACCONTO
Recuperare il tempo perduto
Anche questo è un racconto breve; non è il racconto di una buona prassi didattica, è il racconto della mia prima esperienza di insegnamento che credevo non avrei più né riconsiderato né tantomeno reso pubblica.
Allora avevo solo vent’anni , uscivo fresca dal magistrale, e mi fu assegnata con incarico annuale una classe di seconda elementare durante l’orario del doposcuola.
Era il 1979; un periodo in cui il mondo scolastico, soprattutto quello elementare, era ancora incatenato a regole burocratiche e gerarchiche ferree ed indiscutibili.
C’era ancora il maestro unico, quello del mattino, di serie A, e quello del pomeriggio, di serie B.
Ricordo la mia classe con nostalgia e con dolore, nello stesso tempo; la rendevano diversa da tutte le altre la presenza nello specifico di tre fanciullini; non ricordo più i nomi di nessuno, ma i loro li ho impressi nella memoria a marchio indelebile.
Uno di loro, Davide, era affetto da problemi legati alla crescita (soffriva di nanismo…), e probabilmente questo gli creava anche disturbi nel comportamento; quando veniva assalito da raptus di nervosismo, dal basso del suo metro d’altezza afferrava il primo banco che gli capitava e lo lanciava nel vuoto…
Durante le feste natalizie sua madre fu l’unica a presentarsi con un piccolo regalo, una carriola di legno dipinta di blu decorata di fiori secchi…era il suo modo di dirmi: “Lo so che mio figlio è indisciplinato, ma dovete avere pazienza con lui…”
Il secondo di questi miei alunni speciali era normalissimo sia nella crescita fisica che nella crescita psico-intellettiva, aveva il solo torto di appartenere ad una delle tante famiglie di meridionali trasferitisi al nord che era affiliata a culture malavitose e comunque a quel genere sbagliato di intendere la giustizia.
Amava fare il bullo, veniva a scuola con un piccolo serramanico nella cartella e lo esibiva sfoderando un sorriso provocatorio, che già poteva vantare delle piccole carie visibili e di certo la più totale assenza di igiene; lo faceva più per farsi grande all’interno del gruppo classe, davanti ai compagni, che per altre evidenti e secondarie intenzioni.
E’ stato quello che mi ha fatto più tribolare, quello che più di tutti amava provocarmi, senz’altro psicologicamente più grande dei suoi sette anni; quando voleva dimostrarmi tutto il suo rifiuto della scuola, usciva con espressioni del tipo: “Lo sai che io ho un cugino grande e grosso che può venire a scuola solo se io glielo chiedo?”
Il terzo di questi tre campioni di infanzia, Luca, era il meno problematico, soffriva solo di una leggera affezione poliomielitica, e dunque la sua faccetta dolcissima con gli occhi azzurri ed un biondo caschetto morbido contrastava tristemente con il suo incedere leggermente anchilosante…
Sarebbe stato un bambino senza problemi di comportamento, se solo non ci fossero stati gli altri due o quantomeno il secondo, Massimo, che invece lo coinvolgeva nelle sue spedizioni inutili e ribelli.
Gli altri erano bambini normali, con alle spalle famiglie più o meno normali; in classe non mi accorgevo nemmeno d’averli (per fortuna, perché tutta la mia attenzione veniva rubata dai miei prediletti…)
La giornata tipo era la seguente: arrivavo a dare il cambio alla maestra del mattino durante l’orario della mensa; è quel momento che i bambini hanno la massima frenesia addosso, dopo una mattina intera passata incollati sui banchi a fare la lezione che conta; la mia collega nemmeno la incrociavo, lei se n’era già andata, e l’unico momento di copresenza era quello del sabato mattina.
Diciamo pure che la copresenza era più immaginaria e teorica che reale; a fatica si poteva scambiare qualche contenuto serio sul problema classe che potesse superare la frase con qualche battuta.
Non parliamo poi del programma; lei gestiva Il programma, io facevo eseguire nel pomeriggio i compiti che lei aveva assegnato…
Possibilità di programmazioni collegiali, interdisciplinari o quant’altro? Pura fantascienza.
Possibilità di avere insegnanti di sostegno? Non erano previste per queste tipologie di deficit. Non avevo bambini sordi o muti o ciechi o spastici; avevo solo bambini difficili, che esprimevano tutto il loro disagio al quale io avrei dovuto sapere dare delle risposte.
Il direttore scolastico credo di non averlo mai personalmente incrociato; ricordo di più la presenza della segretaria, una donna anch’essa meridionale, come il 70% della popolazione scolastica di quel circondario suburbano e periferico, dalla presenza energica ma anche molto autoritaria, che di didattica poteva intendersene esattamente come io mi posso intendere di astronautica…
Quell’anno aveva avuto la nomina con me anche una mia vecchia compagna di scuola delle elementari, figlia di una tradizione insegnante visto che aveva altre due sorelle che facevano da anni le maestre.
Lei aveva la possibilità di interagire con la docente del mattino; c’era una buona collaborazione, e non aveva in classe casi difficili come i miei. Portava avanti tutto un programma ruotante intorno alla favola di Pinocchio. Con lei funzionava bene, ma io non avrei potuto inserirlo nella mia; io non stavo nella sua testa, non stavo nella sua classe, non avevo il suo approccio, ed il problema era che io ho cercato per tutto l’anno, senza riuscirci, quale potesse essere il mio personale contributo al mio stare in classe con quei bellissimi ed innocenti bambini che mi erano stati assegnati.
Durante il pasto i bambini si scatenavano, o meglio, più che altro i soliti noti; ricordo di non avere mai perso il controllo, di essere riuscita per non so quale miracolo a mantenere sempre un atteggiamento civile e quasi impavido, anche di fronte agli insuccessi più palesi.
La verità è che mi sono sentita impotente; mi mancava l’esperienza, mi mancava il confronto, mi mancava l’incoraggiamento, mi mancava l’esempio.
Finita la mia giornata lavorativa ero praticamente distrutta ( e depressa), senza essere riuscita a fare nulla che mi avesse portato soddisfazione.
Mi sono data delle colpe che probabilmente non avevo; mi sono scoraggiata e non sono più tornata ad insegnare.
Solo adesso, dopo praticamente una vita passata a fare altro, mi rendo conto lucidamente e spassionatamente che avrei dovuto insistere, che non avrei dovuto mollare.
Non mi è mancata la scuola in tutti questi anni, mi sono mancati i bambini o i giovani che possano essere, con la loro spontaneità, con la loro allegria e con il loro disperato bisogno di essere compresi…
A volte basta il sorriso di un fanciullo che ti dimostra la sua riconoscenza per averlo aiutato nel suo piccolo/grande problema, a rendere solare la giornata più uggiosa.
Una voce dentro di me continua a bisbigliare insistente: “Recupera la tua dimensione di maestra mancata, di maestra fallita, riprendi il tuo cammino così insensatamente interrotto, rimettiti alla prova, così come è giusto che sia.” Ed è quello che io intendo fare.
In quanto alla mia amica, lei dopo vent’anni di duro lavoro dietro la cattedra, ha mollato; ha mollato per sfibramento, perché insegnare è un lavoro duro, impegnativo, rigoroso, complesso, ma che richiede quel briciolo di poesia e di immaginazione che nessuna disciplina e nessun senso del dovere possono dare.
Antonella
TERZO RACCONTO
LA PRIMA ORA DI INGLESE
La prima lezione in prima superiore è un momento delicato; è la “lezione-radice”, quella che imposta un’atmosfera.
Quest’anno mi hanno spostato al liceo classico, quindi so già che quanto meno si tratterà di ragazzini motivati e disposti al lavoro. Sono fortunata!
Però.
I ragazzi arrivano sempre meno preparati in inglese, o forse – più precisamente – la preparazione è sempre più eterogenea: il bravo e chi non ha capito nulla, fianco a fianco (qualche giorno dopo, il test d’ingresso confermerà).
I miei due nemici si chiamano Scoraggiamento e Noia, quelli che “Cosa-perdi-tempo-con-me, sono-un-caso-perduto” e quelli che “Oh-no, ancora-con-gli-aggettivi-possessivi”.
Li saluto allegramente, li guardo per bene e afferro il mio primo strumento magico: l’elenco dei nomi. Leggo ad alta voce lentamente, alzando gli occhi e osservando bene ogni viso. Mi assicuro di pronunciare correttamente tutti i cognomi. Vi vedo. Esistete. Vi faccio spazio.
Li avviso che non ho buona memoria. Ci metterò molto tempo a imparare i visi, i nomi. Dovranno avere pazienza con me.
Partono le prime risatine imbarazzate.
Li avviso che comincerò l’inglese daccapo (i pensieri si fanno visibili: “Fiiiuh, menomale!” “Oh, che noia!!!”), ma non sarà come hanno già fatto, ci metterò qualcosa di nuovo (“????”). Cominciamo subito.
“How are you?” chiedo al più vicino.
(“Beh, questo è facile!”) “Fine, thanks”.
Mi sposto di un banco. “How are you?” chiedo.
“Fine, thanks”.
Mi sposto di un banco. “How are you?” chiedo.
“Fine, thanks”.
Mi sposto di un banco….
Al sesto allievo sono perplessi: la prof è per caso idiota?
Immobili, mi guardano con gli occhi fissi.
Mi fermo e li guardo. “Mettete che è una di quelle mattine… Vi svegliate stanchi, il latte è finito, il cane vi ha mangiato gli appunti e perdete anche l’autobus. Arrivate a scuola e la prof vi chiede: How are you? Fine thanks.”
Risate. Perdono la fissità, muovono la testa, le spalle, si guardano fra loro, sorridono imbarazzati, aspettano.
“Ora vi do qualche alternativa”. Riempio la lavagna di frasi, accanto ad ogni espressione una faccina allegra, o corrucciata, o neutra.
“Ora ricominciamo. How are you?”
Ora mi guardano negli occhi, mi sorridono, scelgono e mi rispondono davvero.
Inglese adesso è comunicazione. L’anno può cominciare!
Lucia Bartolotti
QUARTO RACCONTO
L’INSEGNAMENTO DELLA MATEMATICA IN UN ISTITUTO PROFESSIONALE.
E’ dal 1985 che insegno nello stesso istituto professionale. Ci sono capitata per caso; era l’unica cattedra disponibile in città quando ho avuto l’assunzione a tempo indeterminato. Io, ex studentessa di liceo classico, laureata in matematica, non conoscevo quel mondo scolastico fatto di ore di teoria ma anche di materie pratiche ( e a quell’epoca erano tante per gli studenti…).
Da allora, non ho avuto voglia di venire via— anzi ho cominciato a collaborare in vari progetti, orientamento, passaggi e tutto quanto può favorire l’autonomia e lo star bene dello studente nella “mia” scuola.
Sono insegnante di matematica (la materia… più odiata dagli Italiani…). Dai primi tempi, in cui facevo una didattica molto tradizionale e rispettosa dei formalismi (proprio come si addiceva ad una docente di una materia così rigorosa…), mi rendo conto che il mio modo di far avvicinare i ragazzi (sono tutti maschi!!!) alla matematica è notevolmente cambiato.
Non voglio dire con questo che ho abbassato i livelli; sono dell’idea che la scuola deve fornire delle competenze di un certo livello e non deve fare troppi “sconti”… Quello che è cambiato (e lo vedo dal confronto dei testi delle verifiche che preparavo anni fa e che preparo adesso…) è il mio modo di insegnare la MATEMATICA.
Nel mio istituto la matematica è una materia basilare, ma i ragazzi fanno fatica a collegare i concetti matematici che incontrano nelle materie tecniche con gli stessi che affrontano nelle ore “canoniche” della mia materia.
Ho imparato a fare schemi alla lavagna, a dettare appunti dei vari argomenti, a far lavorare in coppia i ragazzi, a “tagliare a fettine” le nozioni e ad usare un linguaggio semplice ma preciso, a fare collegamenti con quanto i ragazzi studiano nelle altre materie tecniche quando è possibile, a ritornare più di una volta sui concetti per migliorare la loro comprensione ed acquisizione. Ho imparato a spiegare il significato di cosa voglia dire imparare la matematica, a cosa può servire nella vita, a non limitarmi all’esposizione “asettica” degli argomenti.
Ogni tanto mi sento dire: “ Proffe, ma cosa serve a me che farò l’elettricista, saper risolvere le equazioni di secondo grado?”.
E poi… per me un docente deve dare ai propri studenti gli strumenti per vivere nel mondo come una persona consapevole e responsabile, critica e partecipe. Gli studenti del mio “mondo” sono persone spesso svantaggiate, per provenienza geografica o contesto territoriale. Sono persone che si considerano spesso inferiori ai loro coetanei che magari studiano in un Liceo, o anche solo in un Istituto Tecnico La scuola dovrebbe servire a loro come “riscatto”. E la relazione è fondamentale. E’ importante che sappiano scomporre un polinomio, ma anche che con la matematica si impara un metodo di lavoro, di impostazione e di risoluzione di problemi. Come elettricisti, i miei studenti, prima di fare un impianto elettrico , dovranno progettare e pensarne la realizzazione.
A volte mi sento un’assistente sociale, ma al tempo stesso mi accorgo di volere bene a queste persone fragili, talvolta refrattarie a qualsiasi forma di “cultura”; sento di lanciare dei semi e come me altri colleghi con cui lavoro da una vita e con i quali ogni tanto mi sorprendo a parlare nella ricerca costante di un senso al LAVORO che facciamo ogni giorno in prima persona.
Renata Rossi
Seguiranno altri appena li avrò da condividere…fonte di riferimento LSCF di Gianni Marconato
BREVE SINTESI DI
DIRE LA PRATICA BRUNO MONDADORI AUTORI TACCONI DUSI GIRELLI SITA’
UN SALTO FUORI DAL CERCHIO
METTERE AL CENTRO L’ESPERIENZA
AVERE CURA DEL PENSARE
TROVARE UN SENSO A QUELLO CHE SI FA
COSTRUIRE COMUNITA’ DOVE SI IMPARA ATTRAVERSO LA RELAZIONE
STARE IN DIALOGO CON LA SITUAZIONE
ESSERE IN RICERCA
COSTRUIRE PROFESSIONALITA’/TESSERE ALLEANZE
Con questo articolo vorrei riprendere il tema dell’analisi dei sentimenti, tra cui in particolare mi rivolgo al sentimento per eccellenza, il sentimento amoroso della coppia, inteso come momento di incontro con l’altro, di esaltazione della mescolanza, di perdita del sé, di riflessione del sé e dell’altro, di consapevolezza e accettazione del reale, di cambiamento continuo metafisico e fisico, di comprensione del tempo e di progettazione del futuro, secondariamente annesso all’importanza e all’arte dell’insegnamento.
Sono quelle sopra citate le complesse fasi che interessano ed accompagnano ogni fenomeno di innamoramento quando per innamoramento si intende l’incontro di due persone che si rivelano e si scoprono essere fatte l’una per l’altra.
Per deduzione a questo principio cardine ed universale che riguarda il sentimento amoroso, non può essere detto amore tutto quello che fuoriesce da questo schema, da questa griglia, da questo puntiglioso tracciato.
Possiamo ben comprendere perché migliaia e migliaia di rapporti finiscono anche dopo brevissimo tempo, o anche dopo un lunghissimo tempo, o finiscono nonostante eccellenti premesse, o non riescono a decollare nonostante eccellenti condizioni, o ancora, non si evolvono come dovrebbero evolversi, cadendo in forme di pseudo amore, dove la coppia è solo apparenza più che sostanza, o dove la coppia è compromesso, o convenienza, o ragion di stato, o abitudine, o incapacità all’esercizio della verità. O infine resistono e si rinsaldano tenacemente nonostante prove innumerevoli e di lungo percorso…
Ecco la prima condizione che il sentimento amoroso incontra e richiede: il suo essere vero, il suo essere assoluto, il suo aspirare alla bellezza, il tendere al miglioramento continuo, il suo volersi proteggere da ogni possibile contaminazione, il suo sapersi donare dentro il cerchio e fuori del cerchio relazionale, il suo esigere chiarezza, il suo essere onesto e sincero, umile e modesto, giocondo e spensierato, geloso e fiducioso, gentile e coraggioso, intelligente e riflessivo.
Prima condizione dell’essere innamorato è dunque avere la possibilità, occasione, fortuna, contingenza che dir si voglia, di incontrare la persona giusta.
Ci si può chiedere con ragione come sia possibile riconoscere con certezza la persona che dovrebbe essere fatta per noi. Questa è la prima enorme difficoltà. Se si sbaglia questo preliminare, che oltretutto capita accidentalmente perché non può essere in alcun modo pianificato, si sbaglierà poi conseguentemente tutti i passaggi successivi.
Non sapere riconoscere la persona giusta, o non saperla scegliere, sono errori di una tale gravità ed imperdonabilità che vengono pagati con un prezzo altissimo, ben peggiore di qualunque perdita finanziaria, anche la più disastrosa, come di qualunque perdita d’immagine.
Forse questa sconfitta è meno visibile, è meno conclamata, è meno soppesata dal sistema sociale in cui ci troviamo immersi, ma vive ed impera nel tessuto interiore delle persone, dei singoli, degli individui, che a loro volta costituiscono la nostra società.
E’ come se noi fossimo calati in un contesto urbano o non urbano che tiene conto del nostro conto in banca, del nostro aspetto fisico, del nostro lavoro e della nostra rete relazionale, ma non tiene in minimo conto la nostra vita privata forse proprio perché privata e dunque appartenente alla sfera del non detto, del taciuto, del riservato.
Chiariamo allora subito in che senso il privato è privato e tale deve rimanere, e in che senso il pubblico è pubblico e deve essere funzionante al privato e viceversa.
L’essere, l’io, la persona, il singolo, come infine l’individuo, è fatto di questa mescolanza: ha una suo sentire interiore ed un suo essere calato nel mondo quotidiano che si interfacciano e non si scindono mai spontaneamente.
L’armonia, l’integrazione, l’equilibrio, la complementarità di queste due sfere che sono concentriche costituiscono il presupposto della felicità.
Che vuol dire che non basta la coppia a determinare la propria felicità, perché la coppia stessa vive nel sociale, vive nella pluralità del tutto, necessita del suo inserimento in tale sistema condiviso; ecco perché il privato, che tale deve rimanere, ha comunque un peso enorme per il benessere del pubblico.
Facciamo esempi concreti: abbiamo avuto un litigio o uno scontro con il proprio compagno, e diventiamo intolleranti o nervosi anche sul posto di lavoro con i propri colleghi o con chi avremo la sventura di incontrare.
Non che ci inventiamo occasioni di scontro, semplicemente reagiamo alle normali situazioni critiche che incontriamo nel modo peggiore, per il verso meno favorevole, con un atteggiamento di chiusura e di critica distruttiva o impietosa.
In condizioni psichiche e personali diverse certamente reagiremmo in modo differente.
Così come tutto il sistema pubblico si appoggia sulla consistenza del sistema privato, anche lo sviluppo del sapere e lo sviluppo del sociale si appoggiano sulla nostra personale capacità di costruire relazioni personali.
Da questo risaputo principio si può dedurre che se il sistema pubblico e sociale non funziona è perché non funziona il nostro sistema privato, ossia non funzionano i singoli che non sanno costruire le proprie vite in maniera funzionante, efficace e costruttivista.
Sorge spontanea la domanda: ma c’è un sapere, un corso di laurea, che insegni alla vita? Che insegni la vita? Abbiamo i corsi di psicologia, di sociologia, di filosofia, di teologia, ma non abbiamo corsi di studio della vita, della vita reale e quotidiana, che a sua volta è una mescolanza di tutti questi saperi.
Sarebbe interessante, perché no, che qualche università si interessasse di questo argomento; le domande oggetto di ricerca potrebbero essere molteplici, per esempio: perché gli uomini (nel senso delle persone) interrompono legami matrimoniali ormai consolidati nel tempo? Perché gli uomini amano avere relazioni extraconiugali? Perché gli uomini si sposano con estrema leggerezza o evitano il matrimonio come se fosse la peste? Perché i figli sono lo specchio parziale della coppia? Perché la società non difende e tutela adeguatamente la famiglia che è la sua perla più preziosa? Perché tra genitori e figli è sempre esistito il cosiddetto conflitto generazionale? Perché gli equilibri di coppia si raggiungono attraverso percorsi ad ostacoli che fuoriescono e si sottraggono ad ogni genere di giudizio definitivo?
Quanti argomenti, quanti aspetti, quanti angoli sconosciuti e misteriosi che potrebbero essere fonte di saperi estremamente utili e produttivi.
Vorrei collegare questo mio argomentare ad uno studio che sto facendo sul Dire la pratica all’interno di un eccellente studio di ricerca iniziato presso l’Università di Verona da giovani e meno giovani ricercatori che si vogliono occupare dell’arte dell’insegnamento, arte antica quanto sconosciuta nel senso di mai indagata come prassi.
Si è appena concluso il convegno intitolato a questo tema delle narrazioni didattiche il 12 novembre scorso; erano presenti in sala presso lo storico edificio di Via Cantarane le migliori eccellenze universiterie del settore internazionali e non, l’aula era gremita tanto che abbiamo dovuto cambiare la stanza per potere dare a tutti i presenti la possibilità di sedersi…(molti giovani studenti che forse un giorno saranno insegnanti migliori di come lo siamo stati noi nel passato anche grazie a questa preziosa risorsa aggiuntiva che la ricerca ha saputo mettere in campo nonostante la crisi e nonostante le cattive politiche finanziarie…)
I corsi di laurea hanno da che mondo e mondo una impostazione teoretica/astratta. Il saper fare, l’arte del creare, dell’improvvisare, dell’interagire nell’attimo e sull’attimo attraverso le ordinarie occasioni di vita, sono sempre state oggetto di silenzio e di disattenzione, per non dire di sminuimento.
L’insegnante fino a poco tempo fa è sempre stato colui che possiede il sapere delle parole intese nella loro concettualizzazione , che possiede il sapere dei contenuti oggettivi; dopo alcuni anni in cui si è dato spazio a valenti ricercatori e ricercatrici che hanno cominciato ad occuparsi del come, del verso chi e del perché si fa didattica (e non più del quando o del dove o del su che cosa…) si è scoperto che anche e soprattutto il mestiere di insegnante ha bisogno della sua prassi, cioè della sua narrazione delle pratiche didattiche.
Questi esperimenti d’aula anzichè di laboratorio vanno scritti, vanno osservati, vanno conservati, vanno documentati, esattamente come si farebbe con un problema di carattere prettamente scientifico. E naturalmente indagati con metodo scientifico, con rigore, con fedeltà, con attenzione verso l’altro, visto che qui si ha a che fare anche nella fase iniziale e non solo in quella finale con esseri umani, con soggetti viventi, con vite che pulsano e chiedono di continuare a pulsare migliorando la qualità della loro vita.
I medici hanno il racconto dei loro casi clinici, gli avvocati hanno il racconto dei loro casi giudiziari, l’architetto ha il racconto delle sue costruzioni architettoniche, tutti accedono normalmente agli archivi di loro competenza…solo per gli insegnanti si è sempre dato per assodato che avessero già acquisito in sé l’arte del saper insegnare, magari solo per avere fatto qualche settimana di stage sul campo, cosa assolutamente non vera e non certa, non precostituita e predata.
Questo volume, Dire la pratica, edito da Bruno Mondadori, è l’excursus di un team che ha saputo incontrarsi (qui non c’è la coppia ma c’è il gruppo), che ha saputo incontrare (qui non c’è la società genericamente intesa ma un tassello della società stessa, quella che riguarda nello specifico il mondo della formazione) , che ha saputo porsi delle domande utili e preziose a cui finalizzare la propria ricerca (come si insegna? Esiste un metodo valido sempre e comunque? Cosa varia e cosa non varia? Quanto conta la soggettività del docente?…), che ha voluto (sempre per riprendere il legame stretto tra sapere, volere e potere) essere un’occasione di aiuto e di sostegno ai docenti che ogni giorno si trovano a combattere sul campo come se andassero in trincea, più preoccupati loro malgrado e per loro mortificazione, di portare a casa la pelle che di portare a casa conquiste.
Se poi si pensa che queste conquiste non sono altro che il benessere psico-fisico, spirituale ed intellettivo i nostri figli, dei figli che nasceranno dai nostri , e così discorrendo, si può ben comprendere l’urgenza, la gravità, la sostanzialità, la vitalità ed il vitalismo di questa riflessione.
Mi riservo di riprendere questo tema ambivalente e strettamente legato a mio avviso, tra l’essere una persona felice e l’essere un buon insegnante, quando avrò acquisito maggiori elementi oggettivi e soggettivi per potere tornare sul tema.
Anch’io sono una neofita, anch’io sono una che è arrivata come molti altri per ultimo, per la mia gigantesca inesperienza forse non avrei nemmeno diritto di parola, ma è pur vero che se non ho una lunga esperienza come insegnante, ho però una lunga esperienza di vita vissuta sempre all’interno del sistema scuola e sempre all’interno del sistema società. Ovviamente non solo di vita vissuta, ma anche di vita metariflessa, condivisa, discussa, osservata…
Nel frattempo già in queste poche parole sono emersi, a mio modesto parere, spunti di riflessione con cui lascio il lettore a certe proprie valutazioni.
Mercoledì scorso sono andata con Gianni Marconato allo SMAU di Milano a presentare il nostro gruppo, LSCF, insieme alla nostra perla più rara, il Manifesto; è stato molto interessante.
Grazie dunque a chi ci ha invitato e a chi ci ha permesso di divulgare anche attraverso questo piccolo passo la nostra visibilità sul territorio.
Qui potete trovare l’evento e di seguito potete consultare il contenuto delle slide presentate a una piccola ma significativa platea di una trentina docenti.
Prima di noi presentava Noa Carpignano insieme a Maria Grazia Fiore sui libri di testo liquidi ossia su un nuovo modo di intendere la lettura e l’uso dei libri di testo; testi che non sono più quelli tradizionali, dove si leggono i capitoli in ordine di successione e per aree distinte che si collegano come un filo d’Arianna, ma testi a misura di li legge, a tela di Aracne, che a secondo di come li approcci essi possono essere uno nessuno centomila, ossia trasformarsi, cambiare forma (da cui l’uso del termine liquidi), dire cose diverse pur senza contraddire nulla di quello che ovviamente trasmettono ed insegnano; insomma, è l’insegnante che fa il libro e non che lo subisce e che lo adotta come qualcosa di chiuso e di rigido; nello stesso tempo capita qualcosa di simile anche allo studente che si trova realmente in questo scenario al proprio posto, nel proprio ruolo, quello di apprendista, apprendente, conoscente, conoscitore, scopritore e ricercatore del sapere…insomma, si è parlato di lettura spaziale e non più temporale, che svilupperebbe certe facoltà di apprendimento che il sistema occidentale tradizionale ha lasciato dormienti.
Per capirci meglio, le culture orientali hanno un metodo di studio e di lettura impostato su questo schema e non è un caso che loro abbiano una comprensione della matematica infinitamente superiore alla nostra.
In questo contesto inoltre davvero il libro di testo farebbe il libro di testo, e l’insegnante farebbe l’insegnante e lo studente farebbe lo studente…
Prima ancora di Noa c’era in agenda la presentazione dell’editore non chè docente Mario Guaraldi intorno la sua idea ancora pionieristica per noi italiani di editoria open ed che pubblica ad un costo ragionevole, on demand, ad un pubblico ristretto, di nicchia, che può avere i più vari interessi, le più impensabili necessità senza per questo trovarsi escluso dal mercato editoriale.
In poche ore mi sono vista sciorinare il meglio del meglio del settore, sono personalmente rimasta estasiata, non chè entusiasta, come un bambino che si trova improvvisamente catapultato nel regno dei balocchi…
Non sono competente dei settori ma posso riportare dei link dove potere reperire notizie giuste su queste questioni di scuola ordinaria che ci riguardano tutti perchè tutti abbiamo dei figli che praticano la scuola o perchè molti di noi sono essi stessi studenti in perpetua formazione, come è giusto che sia.
Per esempio qui si può leggere quello che fa e chi è Mario Guaraldi con la sua capacità profetica di pensare una forma avanzata di stampare i libri e di diffondere il sapere, di fronte alla quale la sonnecchiosa editoria tradizionale dovrà prima o poi fare i conti e ripensare il proprio ruolo all’interno della catena libraria.
Qui l’intervista datata 2008 da lui rilasciata sul suo operato in corso e qui qualcosa di più che ancora ci racconta della sua personalità e del suo pensiero editoriale.
Ecco invece in sintesi il contenuto delle slide presentate, riportate sotto in formato word ma scaricabili in originale sul sito di LSCF nel forum intitolato : la scuola che funziona
Milano, 20-22 ottobre – Fieramilanocity
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