Mafia=crimine assoluto

L’ULTIMA DI GRILLO

Grillo in piazza  ci ha detto   che la mafia  è meglio dello Stato, perchè lo Stato sta strangolando  i suoi cittadini e servitori, mentre la delinquenza  organizzata al massimo chiede un 10% dei tuoi guadagni…

Bisogna replicare al sig. Grillo sparlante   che per quanto questo Stato stia sbagliando e stia commettendo  gravissimi errori,   rimane pur sempre lo Stato  che ci garantisce una identità, un punto di riferimento, una minima garanzia di legge, se non applicata, almeno applicabile…

La mafia no, la mafia anche qualora fosse quello che  il comico-politico sostiene,  resterebbe sempre e soltanto se stessa, cioè pura criminalità della peggior specie, che non solo si limita a chiederti quel ragionevole pizzo  che tutti noi saremmo disposti a pagare, pur di lavorare, ma che bensì uccide, e senza pietà, sistematicamente, con metodi che nulla hanno da invidiare agli specialisti  nella pratica della tortura, e senza avere  esitazioni di sorta nemmeno davanti agli infanti, alle donne indifese ed agli innocenti…C’è di peggio che   la mafia è sempre meno quella cosa là che riempiva le macchine di tritolo e sempre più questa cosa qua,  che si è  intrufolata braccio a braccio nella politica e che si presenta con la faccia pulita, i guanti bianchi ed in testa la bombetta…

Ecco,  in questo senso sì, un certo   Stato è come la mafia, nel senso che è la mafia stessa arrivata al potere legalizzato.

Quest’ uscita  quindi   gravemente  inesatta  davvero  Grillo se la deve rivedere.

Il giorno che dovessimo tornare a votare, amici carissimi,  ci chiuderemo il naso  e la bocca,  per  respirare il meno possibile il puzzo che probabilmente   uscirà  ancora  dai seggi e che circonderà come un alone  maleodorante  un bel pò  di tutta la gentaglia  che potremo  ancora  trovare indicata  nelle liste.

E senz’altro  qui esiste sul serio il movimento dei  Vaffanculo,  tra cui mi ci metto anch’io

Ma poi dovremo fare una scelta, e seria, e sostanziale, e mi auguro  di  vero cambiamento…

Non nego   che  il   Movimento degli scontenti      portato in piazza  dallo showman  sia parte esso stesso  di questo  bisogno di voltar pagina,  ma inviterei il sig.  Inquestione   ad essere più accorto nelle sue frecciate e nelle sue espressioni  provocatorie.

Non sono di quelli che lo condannano a priori,  non sono di quelli  che  sostengono  che da questo movimento non potrà mai venire fuori qualcosa  di buono…(e chi può dirlo con certezza dove sta  tutto il buono e dove sta  tutto il cattivo, largo dunque ad ogni uomo di buona volontà  che abbia qualcosa di vero  da proporre)

Ma ripeto,  in questa circostanza,  ha fatto fiasco,   perdendo  in   credibilità, e mancando  di rispetto verso  tutte le vittime eccellenti  e meno eccellenti   di mafia…

A nome suo,  chiedo io scusa  per lui.

Benvenuto primo Maggio, festa del lavoro suicidato

concerto del  1° maggio

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Milano apre i musei

 

numerosi gli artisti presenti

 

…ma io vorrei soltanto che tra tanta musica e balli e suoni, più che legittimi e sacrosanti, qualcuno pensasse a chiedere a tutti i presenti un doveroso  minuto di silenzio  per tutti gli innocenti che dall’inizio dell’anno   si sono suicidati  per  averlo perso, il lavoro…e purtroppo  è probabile ce ne saranno ancora altri…

NON SOLO CANZONETTE…

PHIL  COLLINS               IN THE AIR TONIGHT

PINK FLOYD               COMING BACK TO LIFE

LED ZEPPELIN                 TANGERINE

 MICHAEL  BUBLE      MOONDANCE

“Cari fedeli, le tasse non sono sempre giuste…”

Lo dice una persona di buon senso, e che fa di mestiere il parroco onesto del comune di Villasanta.

Si chiama don Ferdinando Mazzoleni;   quando ero bambina  si occupava insieme  ad altri  preti della mia parrocchia,  ed il rivederlo in televisione dopo tanti anni,  solo un pò invecchiato  ma con lo stesso timbro di voce, con la stessa calorosa parlata brianzola, a  me, che non amo la Brianza velenosa denunciata  nelle melodie di Battisti, e che non amo  indiscutibilmente tutti i preti,    ha fatto un certo piacere.

Il buon Ferdinando  invita in tv e ai microfoni di Repubblica.it  i poveri e poverissimi  a non pagare le tasse ingiuste;  come del resto pagare oneri  che sono arrivati a livelli indegni,  a causa dello sperpero e della corruzione  di chi ci avrebbe governato?

In  quanto a lui, le tasse le paga, ovviamente, e le paga la sua parrocchia, e le paghiamo noi tutti che abbiamo le risorse di continuare a pagarle, e bisognerebbe pensare a creare fondi  di sostegno  per quei cittadini  che davvero si trovano  in situazioni ormai di grave precarietà.

Cosa potremmo fare nel nostro piccolo  per dare sollievo  a chi non  arriva  da molto tempo alla fine del mese?  Da sempre  ci sono i centri di raccolta  della Caritas,  e i centri di raccolta  di innumerevoli  associazionii  di volontariato, lo sappiamo.

I tempi non sono facili per nessuno, ma non bisogna cedere allo sconforto, nella maniera più assoluta.

E chi ha situazioni da denunciare, o situazioni  per cui  chiedere aiuto, non deve esitare  a farlo, una società degna e civile deve essere in grado di dare delle risposte, di  fornire il suo  minimo  sostegno,  di dare segnali di incoraggiamento. Quanto meno deve provarci, provarci e riprovarci.

Tra  la vergogna di mostrare il proprio  disagio  ed il coraggio  di sporcarsi le mani  per salvare chi ha bisogno di noi,  esistono  tanti piccoli semplici gesti  d’umanità e di soccorso.

La politica?  In questo momento naviga acque molto molto torbide;  meno se parla e forse più ne guadagna (che è quello  che  vogliamo).

Per il momento  BRAVO  don Ferdinando,  bravo  a tutti quelli che fanno indicano e sostengono  senza tante cerimonie  ed esitazioni.

Questo sacerdote  è un assoluto nessuno, è il buon vicino della porta accanto,  è il nostro compagno più  grande   di gioventù  con cui sognavamo un mondo diverso e migliore,  è il nostro maestro  che a scuola si prendeva cura di noi affinchè  potessimo crescere  con sani principi, un maestro serio e solido, non bacchettone,  non  interessato,  non superficiale  e nemmeno  corruttibile.

Sto parlando di un mondo passato che non esiste più?  Frignacciate,  non so che farmene   di gesti giovanili che di giovane hanno solo l’esteriorità;  io voglio gente  ferma  ed affidabile   che  cammina tra la  gente del suo paese; quando interrogata, sa offrire risposte; anche se non interrogata,  ha pensieri ed opinioni e propositi  da mettere in gioco.

E li gioca.

Io voglio un mondo dove la Caritas non avrà più ragione d’esistere, perchè ci saranno uomini  responsabili e degni della propria  condizione, che non ruberanno, che non mortificheranno, che non calunnieranno, che non si piangeranno addosso…

Nel nome di questo legittimo desiderio Chiedo una politica finalmente capace di assumersi i propri oneri e onori.

Faccio un appello a tutti i Sindaci d’Italia  che qualcosa di concreto e di significativo possono già da subito muovere.  Ce lo devono.  Devono  darci dei segnali  che possano farci ancora pensare che la politica non è tutta inutile e becera.

Fratelli lontani e vicini, perdonateci

LETTERA DEL SANTO PADRE PAOLO VI
ALLE BRIGATE ROSSE

Io scrivo a voi, uomini delle Brigate Rosse: restituite alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l’onorevole Aldo Moro. Io non vi conosco, e non ho modo d’avere alcun contatto con voi. Per questo vi scrivo pubblicamente, profittando del margine di tempo, che rimane alla scadenza della minaccia di morte, che voi avete annunciata contro di lui, Uomo buono ed onesto, che nessuno può incolpare di qualsiasi reato, o accusare di scarso senso sociale e di mancato servizio alla giustizia e alla pacifica convivenza civile. Io non ho alcun mandato nei suoi confronti, né sono legato da alcun interesse privato verso di lui. Ma lo amo come membro della grande famiglia umana, come amico di studi, e a titolo del tutto particolare, come fratello di fede e come figlio della Chiesa di Cristo. Ed è in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi, che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa intercessione, ma in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità, e per causa, che io voglio sperare avere forza nella vostra coscienza, d’un vero progresso sociale, che non deve essere macchiato di sangue innocente, né tormentato da superfluo dolore. Già troppe vittime dobbiamo piangere e deprecare per la morte di persone impegnate nel compimento d’un proprio dovere. Tutti noi dobbiamo avere timore dell’odio che degenera in vendetta, o si piega a sentimenti di avvilita disperazione. E tutti dobbiamo temere Iddio vindice dei morti senza causa e senza colpa. Uomini delle Brigate Rosse, lasciate a me, interprete di tanti vostri concittadini, la speranza che ancora nei vostri animi alberghi un vittorioso sentimento di umanità. Io ne aspetto pregando, e pur sempre amandovi, la prova.

ROMA,  22 aprile 1978

Ma  dal 22 aprile al  9 maggio  tutto fu inutile…

La festa onorabile della terra

Una festa dal 1970……….

ad oggi

PROCESSO A UN CRIMINALE

Il saluto di Anders Behring Breivik alla Corte distrettuale di Oslo  (Xinhua)

Nell’immagine   il «saluto dei cavalieri templari, segno di forza, onore e sfida ai tiranni marxisti d’ Europa»

Le sue dichiarazioni in diretta

«Chiedo l’assoluzione perché sono innocente: ho agito in modo violento per prevenire una guerra, e per preservare la razza norvegese. Lo rifarei».

«Le persone che mi accusano di essere malvagio, confondono il fatto di essere malvagi con l’essere violenti – ha detto – quando la rivoluzione pacifica è impossibile, l’unica via è la rivoluzione violenta»

(L’ho fatto)  “per prevenire la guerra che sono sicuro al 100% scoppierà in Europa tra nazionalisti e internazionalisti»  e che naturalmente    «sarà  vinta da noi nazionalisti, che sconfiggeremo la sinistra estrema».

«Morire o passare la mia vita in prigione per me è un onore», ha aggiunto, spiegando di «essere nato in una prigione: questo paese che non permette di esprimere liberamente le proprie opinioni».

Ecco la linea della difesa:  

«Le stragi furono crudeli ma necessarie per salvare l’ Europa da una guerra in corso», ha detto il capo dello staff di difesa Geir Lippestad, che in questo processo della durata prevista di almeno dieci settimane ha chiamato a testimoniare figure dell’ estremismo come il mullah Krekar del gruppo islamista Ansar Al Islam e il blogger xenofobo Fjordman.

Chi è Anders Behring Breivik ?

E’ un terrorista    ed ha 33 anni;    il 22 luglio   scorso    ha sterminato  in Norvegia, ferocemente  e senza pietà,  77 persone, di più , 77 giovanissimi innocenti e disarmati,  in  75 minuti  senza fine,  senza contare le persone ferite e rimaste lese per sempre.

Oggi il suo paese lo sta processando; si parla di 21 anni di galera  e poi libero (ma non pochi vorrebbero in questo caso la pena di morte)

Questo è il massimo possibile per la legge  norvegese,  e nessuno  se ne dà pace, se ne fa una ragione, nè riesce a comprendere le ragioni di questo gesto di lucida    follia.

2083 Dichiarazione di indipendenza europea

E’ questo il titolo del memoriale di 1500 pagine pubblicato sul web da Anders Behring Breivik, l’uomo ritenuto al momento l’unico responsabile dell’attentato di Oslo e dalla strage di Utoya. Il memoriale, che nel titolo ricorda un po’ un film di fantascienza, vide la luce nel 2009: al suo interno Breivik si definisce un un cristiano conservatore, patriota e nazionalista, si distanzia dai neonazisti, che descrive come “emarginati, irascibili e razzisti skinhead” e si scaglia contro il multiculturalismo e l’immigrazione musulmana.

L’OPINIONE DELLA STAMPA LOCALE

Il giornalista  Simon Jenkins all’epoca dei fatti   sul Guardian  scrisse: “la tragedia norvegese è esattamente questo: una tragedia. Non significa niente e non le si deve dare a tutti i costi un significato. Anders Breivik non ci dice assolutamente niente della Norvegia. Non ci dice nulla di terrorismo o di controllo delle armi o di come lavora la polizia o che cosa sono i campi estivi politici. Palesemente, è molto malato. Il nostro presunto distacco dai mali del mondo era un “velo di circostanza”, creato di proposito da alcuni esponenti politici che vogliono tenere nascosto che la Norvegia – uno dei paesi fondatori della Nato e un alleato tradizionale degli Stati Uniti – di fatto conosce da vicino la violenza”.

Il giornalista     Martin Sandbu  lo scorso luglio, a due giorni dalla strage di Utøya, scriveva sul Financial Times:  “I paesi nordici spesso sono percepiti come più tolleranti nei confronti degli immigrati rispetto agli altri paesi dell’Europa del Nord. Ma può anche accadere che i governi molto semplicemente riescano a camuffare meglio la loro ostilità”.

“Ad essere andato in frantumi il 22 luglio – conclude Sven Egil Omdal  – forse non è il paradiso, ma soltanto lo specchio che ci eravamo costruiti”.

UNA SOPRAVVISSUTA ALLA STRAGE.  “Camminava lentamente lungo l’isola e ha sparato contro tutti. Poi si è avvicinato verso il posto dove ero seduta e ha aperto il fuoco uccidendo subito dieci persone. La cosa strana è che era così calmo. Sono riuscita a salvarmi perché mi sono buttata in acqua”. Così una giovane sopravvissuta alla sparatoria di ieri sull’isola norvegese di Utoya, durante il raduno dei giovani laburisti, ha raccontato alla tv Tv2 la dinamica dell’attacco omicida. “Ci siamo riuniti per parlare di quanto era appena accaduto a Oslo quando abbiamo sentito gli spari. Sul momento non gli abbiamo dato importanza, poi tutti hanno iniziato a scappare”, ha detto un’altra ragazza di appena 16 anni. E ancora: “Ho visto un poliziotto con i tappi per le orecchie. Ha detto: ‘vorrei riunirvi tutti’. Poi ha iniziato a sparare. Siamo corsi sulla spiaggia e iniziato a nuotare verso la terraferma”, ha detto la ragazza raccontando che l’autore della strage ha sparato anche in acqua. In molti hanno cercato rifugio in altre case mentre gli spari continuavano, altri invece sono fuggiti nei boschi o via mare. La polizia ha setacciato la zona durante la notte alla ricerca di sopravvissuti. Al raduno hanno partecipavano giovani di età compresa fra i 15 e i 20 anni. Il presunto autore della strage, di nome Anders Behring Breivik secondo alcuni media, è stato arrestato subito dopo la strage. Aveva con sè una pistola, un fucile da caccia e un’arma automatica, secondo la Bbc. Le autorità hanno trovato poi altre bombe inesplose sull’isola. Non ci sono notizie immediate su altri sospetti, ma la polizia sta comunque lavorando sull’ipotesi di diverse altre persone coinvolte nella strage.

video strage

Parlano i sopravvissuti

Anche in questo caso credo non ci sia bisogno di aggiungere null’altro…

QUANDO LA SXUOLA SA AUTOCORREGGERSI

Ecco i presumibili 10 grandi errori della scuola reale:

1. La scuola agisce come se l’apprendere possa essere dissociato dal fare
2. la scuola crede che la valutazione sia parte del loro ruolo naturale
3. la scuola crede di essere obbligata a creare curricula standardizzati
4. gli insegnanti credono di dover dire agli studenti cosa loro pensano sia importante sapere
5. la scuola crede che l’istruzione possa essere indipendente dalla motivazione per un uso attuale
6. la scuola crede che studiare sia una parte importante dell’apprendere
7. La scuola crede che attribuire voti sulla base del gruppo di età sia una parte intrinseca dell’organizzazione di una scuola
8. la scuola crede che gli studenti si impegnano solo se si devono misurare con i voti
9. la scuola crede che la disciplina sia una parte costituente dell’apprendimento
10. La scuola crede che gli studenti abbiano, di base, un intrinseco interesse ad apprendere qualunque cosa la scuola decida di insegnare loro.

Estratto  da
R. C. Schank, C. Cleary, Engine for Education, Lawrence Erlbaum Associates, 1995
Traduzione Gianni Marconato

Vediamo  se possiamo ancora   essere d’accordo con queste affermazioni:

  1. La scuola agisce come se l’apprendere possa essere dissociato dal fare

Significa  che  consideriamo  l’apprendimento come pura teoria dissociata dalla pratica, mentre vivere e realizzarsi è una questione assolutamente pratica e contingente.

  1. la scuola crede che la valutazione sia parte del loro ruolo naturale

Significa che   i docenti sono stati  formati  a pensare  che loro saranno i soli valutatori  del loro operato  e dell’operato degli studenti, mentre invece  il docente come un qualunque maneger  è tenuto a rendicontare del proprio  lavoro,  ed i suoi  primi  (e forse veri)  valutatori  sarebbero  gli stessi studenti

  1. la scuola crede di essere obbligata a creare curricula standardizzati

Significa  che    non ci sono  curricula standardizzati, ossia   programmi immobili e statici, calati dall’alto, e subiti passivamente,  come  una creatura  a  noi stessi  estranea.  I programmi  sono concepiti in itinere secondo linee guida generali e personalizzati/modificati/integrati/allargati  alle più diverse situazioni e condizioni.

4. gli insegnanti credono di dover dire agli studenti cosa loro pensano sia importante sapere

Significa  che solo lo studente stesso  può decidere  alla  fine   cosa debba essere importante nell’apprendimento, che significa che lo studente stesso deve giocare un ruolo attivo e consapevole  nella propria formazione.

5      la scuola crede che l’istruzione possa essere indipendente dalla motivazione per un uso attuale

Significa  che  la  scuola   non sa o non si preoccupa di  coinvolgere, non sa  o non si preoccupa di  motivare,  impone senza proporre o propone  per imporre, sostituendosi    al ruolo centrale ed insostituibile   del discente.

6.         la  scuola  crede che studiare sia una parte importante dell’apprendere

Significa  che lo studio è solo una piccola parte dell’apprendere; si apprende anche e soprattutto  costruendo, osservando, ascoltando, sperimentando, ricercando, viaggiando, facendo musica, teatro, e  mille altre  cose ancora.

7. La scuola crede che attribuire voti sulla base del gruppo di età sia una parte intrinseca dell’organizzazione di una scuola

Significa che il voto è solo un possibile e senz’altro limitato  modo di fare scuola; esistono sistemi formativi ed educativi  che non ricorrono affatto la voto e dimostrano di funzionare benissimo.

8.         la scuola crede che gli studenti si impegnano solo se si devono misurare con i voti

Significa  che  gli insegnanti  sbagliano a pensarlo; gli studenti scolarizzati credono nella funzione del  voto solo perché non hanno conosciuto una forma alternativa di valutazione. Se la conoscessero,  rinuncerebbero volentieri  a  un sistema di  misura dei   propri progressi così rigido ed  irrisorio.

9.         la scuola crede che la disciplina sia una parte costituente dell’apprendimento

Significa  che non si può apprendere nel caos e nell’assenza di regole, ma che le regole non sono una parte costituente dell’apprendimento, ma solo necessaria, solo data in premessa, e non in sostanza. Bisogna fare disciplina per poi potercene dimenticare.

10.       La scuola crede che gli studenti abbiano, di base, un intrinseco interesse ad apprendere qualunque cosa la scuola decida di insegnare loro.

Significa  che  molte scienze o saperi  decisi e programmati dalla scuola potrebbero e possono non interessare di fatto gli studenti; di contro molti saperi  non messi a programma potrebbero riscuotere la loro provvidenziale e preziosa attenzione  che li trasformerebbe   da giovani senza arte  né parte a giovani  con progetti  ed entusiasmi  da mettere alla prova.

Sembra  che la carne messa al fuoco  su cui riflettere  sempre   sia  molta.

Tutto può essere  sempre di certo migliorato rivisto  ripreso e rivalutato.

L’importante per gli addetti ai lavori  è  di non strumentalizzare mai   e  di  non lasciarsi  mai strumentalizzare; è   agire  sempre  con la massima  diplomazia  e disponibilità,  verso tutti gli interlocutori coinvolti,  perché quello che può sembrare  inizialmente in un certo modo, se osservato da un’altra angolazione che non avevamo preso in conto  può apparire completamente diverso.

La questione   degli errori della scuola è di vecchia data, ma non si finisce mai di riproporla e di rivisitarla.

Naturalmente   a  docenti sempre pronti a rimettersi in gioco e a non perdere l’entusiasmo  del lavorare  coi giovani per i giovani grazie ai giovani.

I FATTI ALLA SCUOLA DIAZ

Diaz NON CANCELLATE QUESTO SANGUE

Il  film l’ho visto, anche se non è stato   un bel vedere.

Si è  dovuti   aspettare   undici anni  per  tentare di parlare di un evento  che all’epoca dei fatti suscitò  molto sconcerto  e  sdegno.

Nel 2001  lavoravo al Levi    e mentre raccontavano gli episodi in televisione,  noi  a scuola ci si guardava esterrefatti con sguardi  sorpresi  pieni  di   incredulità.

Ci si chiedeva banalmente: “Come possono accadere queste  cose nel 2001, in una città viva e aperta e per nulla di destra come Genova, contro giovani non armati ed indifesi, presi di mira da una feroce rappresaglia, e proprio da quelle militanze  governative predisposte alla difesa pubblica?”

Ebbene,  la risposta è altrettanto banale:  si può, eccome, si può benissimo, quando le cose sfuggono di mano, quando  la tensione raggiunge livelli molto pericolosi, quando ci sono in campo interessi di parte  e lo sguardo di un intero mondo che ti guarda, che ti giudica,  che da te  Stato  si aspetta che tu faccia la cosa giusta, o comunque la cosa più ragionevole.

Il processo che si è concluso  in sostanza ha messo in evidenza  gli eccessi di violenza delle forze dell’ordine e dei reparti speciali, con tutti i loro discutibili sistemi di indagine, di reclusione e di falsificazione delle prove…

Eppure stiamo parlando di  giovani  uomini dello Stato  che hanno anche loro famiglie (si presume) e che hanno anche loro dei sentimenti  e delle ragioni   legate all’idea di giustizia, di democrazia, di trasparenza e di quant’altro…

Già,  ma le colpe nefaste dei black bloc?  Quando si va in piazza armati di tutto punto, o con bombe molotov, o con arnesi vari  per cui e con cui si minaccia la vita di chi ci sta di fronte  vestito con la divisa contraria, e si minaccia la proprietà altrui,  è legittimo difendersi, è legittimo  fare la propria parte.

Quali allora le alternative sociali? andare in piazza non armati, con manifestazioni pacifiche,  in un corteo  che  sa tenere fuori dalle sue frange  i non desiderati.

Dunque   esistono due modi di fare lotta, di fare opposizione; esistono due movimenti nel movimento;  uno  che vuole rimanere nella legalità, ed uno che questa legalità non la riconosce e per questo la vuole  scientificamente  e disonestamente  distruggere.

Distruggere come?  distruggendo cosa?  Mettendo a soqquadro le cose delle persone private, dei liberi cittadini. Togliendo la libertà   di espressione  ad  altri che hanno il solo torto di appartenere al gruppo contrario, vuoi per scelta, vuoi per i casi della vita, vuoi per il semplice bisogno di portarsi a casa  un salario,  e che praticamente vengono presi d’assedio.    Mandando verso  un destino segnato di  macelleria messicana  (così come è  stata   definita  da alcuni   giornalisti   l’operazione Diaz) i propri stessi  compagni di strada ma non di letto, quelli così detti  pacifici,  quelli che vanno ai G8  come se si andasse a feste popolari con tanta musica e voglia di  stare allegri   al seguito….

La strage Diaz  ci insegna  che i colpevoli sono rimasti impuniti e gli innocenti le hanno prese, le spranghe, ed hanno subito torture e l’afflizione di un lungo e penoso  processo.

La  strage Diaz ci insegna  che i vertici   delle forze dell’Ordine in quei  giorni nefasti  hanno perso il senso della misura,  la visuale complessa e reale  delle cose, ed  hanno giocato sporco, se non nella loro totalità,   senz’altro nelle loro sostanziali direttive.  Così hanno valutato la situazione. Così hanno ritenuto opportuno agire. In un paese civile, libero e democratico  si è pensato di ricorrere a mezzi per nulla  civili, liberi e democratici.

Gli   organi di rappresentanza dello Stato  non dovrebbe mai arrivare   a questo, ma se ci arrivano  con tanta ferocia e determinazione è necessario chiedersi  i  perchè.

Si sa che la disciplina  nella vita militare è molto, praticamente   è tutto.   Se ti danno un ordine non lo puoi nemmeno discutere.

Io posso comprendere gli errori,  che  la paura e la rabbia facciano   cento,  però non posso comprendere un soldato addestrato per combattere contro feroci criminali  ed armato di tutto punto si accanisca   con violenza inaudita contro  ragazzi e ragazze   indifese    che  semplicemente stanno in un luogo per manifestare  pacificamente (fino a prova contraria)  e nello specifico  in procinto di coricarsi. E  tra questi giovani ci stanno anche giornalisti,  semplici addetti ai lavori,  inviati   dalle proprie testate   per eseguire   il mero  compito di documentare  i propri   reportage…

Si  dice che  se non vuoi guai non vai in certe situazioni; forse,     ma ancora una volta  il mondo dello Stato e della politica  ha dimostrato di non sapere stare dalla parte dei giovani, della loro naturale e provvidenziale voglia  di un mondo più giusto e con minori differenze…

E  la dice giusta  il buon saggio   della situazione  che  trovandosi nel posto sbagliato nel momento sbagliato,  finisce anche lui ricoverato al  pronto soccorso con un braccio rotto;  interrogato  sulla sua presenza  da  un   celerino ( o qualcosa di  simile)  male informato,  commenta:   “Avete fatto una cazzata,  avete fatto una grande cazzata…”

Questo film rende finalmente  merito  a chi in quei giorni  subì enormi ingiustizie,  rende merito  ai giovani  e alle loro famiglie,  alle nuove generazioni  che  non hanno avuto nessun dubbio  ad esporsi, nel modo migliore  e non  violento, e che continuano a farlo,  non scoraggiati  dai cattivi esempi,   non  mortificati  dalle  pessime  testimonianze  che noi  adulti siamo sempre pronti  a  propinare…

Scusate, ma c’è davvero poco da aggiungere.

I CARE

Testimonianze dirette di chi l’ha frequentata

Sono i giovani di Barbiana stessi che definiscono in cinque punti la scuola nel 1963, quattro anni prima della morte di don Milani:

1.Barbiana 
« …Barbiana non è nemmeno un villaggio, è una chiesa e le case sono sparse tra i boschi e i campi… In tutto ci sono rimaste 39 anime… In molte case e anche qui a scuola manca la luce elettrica e l’acqua. La strada non c’era. L’abbiamo adattata un po’ noi perché ci passi una strada. »

2.La  scuola 

« La nostra è una scuola privata… D’inverno stiamo un po’ stretti, ma da aprile ad ottobre facciamo scuola all’aperto e allora il posto non ci manca… Soltanto nove hanno la famiglia nella parrocchia di Barbiana. Altri cinque vivono ospiti di famiglie di qui perché le loro case sono troppo lontane… Qualcuno viene da molto lontano, per esempio Luciano cammina nel bosco quasi due ore per venire e altrettanto per tornare. Il più piccolo di noi ha 11 anni il più grande 18… l’orario è dalle otto del mattino alle sette e mezzo di sera… Non facciamo mai ricreazione e mai nessun gioco… i giorni di scuola sono 365 all’anno, 366 negli anni bisestili… abbiamo ventitré maestri, escluso i sette più piccoli, tutti gli altri insegnano a quelli minori di loro… »

3.Perché i  suoi ragazzi  andavano  a scuola    “sul principio”
« Prima di venirci né noi né i nostri genitori sapevamo cosa fosse la scuola di Barbiana. Quel che pensavamo noi non siamo venuti tutti per lo stesso motivo. Per noi barbianesi la cosa era semplice: La mattina andavamo alle elementari e la sera ci toccava andare nei campi. Invidiavamo i nostri fratelli più grandi che passavano la giornata a scuola dispensati da quasi tutti i lavori. Noi sempre soli, loro sempre in compagnia. A noi ragazzi ci piace fare quel che fanno gli altri. Se tutti sono a giocare, giocare, qui dove tutti sono a studiare, studiare. Per quelli delle altre parrocchie i motivi sono stati diversi: Cinque siamo venuti controvoglia (Arnaldo addirittura per castigo). All’estremo opposto due abbiamo dovuto convincere i nostri genitori che non volevano mandarci (eravamo rimasti disgustati dalle nostre scuole). La maggioranza invece siamo venuti d’accordo coi genitori. Cinque attratti da materie scolastiche insignificanti: lo sci o il nuoto oppure solo per imitare un amico che ci veniva. Gli altri otto perché eravamo davanti a una scelta obbligata: o scuola o lavoro. Abbiamo scelto la scuola per lavorare meno. Comunque nessuno aveva fatto il calcolo di prendere un diploma per guadagnare domani più soldi o fare meno fatica. Un pensiero simile non ci veniva spontaneo. Se in qualcuno c’era, era per influenza dei genitori… »

4.Perché andavano  a scuola    “dopo”
« A poco a poco abbiamo scoperto che questa è una scuola particolare: non c’è né voti, né pagelle, né rischio di bocciare o di ripetere. Con le molte ore e i molti giorni di scuola che facciamo, gli esami ci restano piuttosto facili, per cui possiamo permetterci di passare quasi tutto l’anno senza pensarci. Però non li trascuriamo del tutto perché vogliamo contentare i nostri genitori con quel pezzo di carta che stimano tanto, altrimenti non ci manderebbero più a scuola. Comunque ci avanza una tale abbondanza di ore che possiamo utilizzarle per approfondire le materie del programma o per studiarne di nuove più appassionanti. Questa scuola dunque, senza paure, più profonda e più ricca, dopo pochi giorni ha appassionato ognuno di noi venirci. Non solo: dopo pochi mesi ognuno di noi si è affezionato anche al sapere in sé… Prima l’italiano perché sennò non si riesce a imparar nemmeno le lingue straniere.Poi più lingue possibile, perché al mondo non ci siamo soltanto noi.Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare fra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre. »

5.Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare 
« …Per es. uno dei più grandi, già bravissimo in matematica, passava le nottate a studiarsene dell’altra. Un altro, dopo sette anni di scuola qui, s’è voluto iscrivere a elettrotecnica. Alcuni di noi ogni tanto son capaci di trascurare una discussione per mettersi a contemplare un motorino come ragazzi di città. E se oltre al motorino avessimo a disposizione anche cose più stupide (come il televisore o un pallone) non possiamo garantirvi che qualcuno non avrebbe la debolezza di perderci qualche mezz’ora… Pressione dei nostri genitori e del mondo a nostra difesa, però c’è che ognuno di noi è libero di lasciare la scuola in qualsiasi momento, andare a lavorare e spendere, come usa nel mondo. Se non lo facciamo non crediate che sia per pressione dei genitori. Tutt’altro! Specialmente quelli che abbiamo già preso la licenza siamo continuamente in contrasto con la famiglia che ci spingerebbe al lavoro e a far carriera. Se diciamo in casa che vogliamo dedicare la nostra vita al servizio del prossimo, arricciano il naso, anche se magari dicono di essere comunisti. La colpa non è loro, ma del mondo borghese in cui sono immersi anche i poveri. Quel mondo preme su di loro come loro premono su di noi. Ma noi siamo difesi da questa scuola che abbiamo avuto, mentre loro poveretti non hanno avuto né questa né altra scuola. »

Riflessioni brevi personali

La scuola di Barbiana,  oggi,   non è più   un luogo fisico   dove si possa andare e decidere di rimanervi.

Essa è rimasta  un  luogo non luogo,  un tempo non tempo,  che solo  continua a vivere nelle persone che l’hanno frequentata, e più che frequentata, vissuta e portata  nel cuore. E dopo di loro continua a vivere nelle persone che l’hanno studiata, approcciata, incrociata  nella propria  formazione pedagogica.

La scuola del prete più discusso d’Italia (se non il più discusso, uno dei più  chiacchierati) è praticamente  la storia di questo stesso  religioso  ed educatore; perseguito per la sua eccessiva   originalità e per il suo temperamento eccessivo, don  Lorenzo  viene mandato a Barbiana per    punizione,  affinchè   gli venga inflitto  una specie di confino, di isolamento.

Invece a Barbiana  il nostro speciale investito  religioso    mette floride e felici radici. A dispetto di ogni più  funerea  e malvagia   previsione.

Don Lorenzo l’intemperante, Don Lorenzo il cattocomunista, Don Lorenzo  l’eretico, Don Lorenzo il  disubbidiente, Don Lorenzo  il folle…

Invece Don Lorenzo è solo un prete fuori da ogni schema  e fuori da ogni ortodossia, ed è un educatore  che concepisce quindi la scuola soprattutto  per quei  poveri  che nella scuola normale verrebbero e sono di fatto   “scartati”  perchè ritenuti   inadeguati e non dotati.

Certo, molti studenti smidollati  di  oggi   non so se metteremmo con coraggio   mai un piede dentro questa concezione di  formazione scolastica.  Qui  non c’è un solo giorno di vacanza, non c’è il momento del gioco, non ci sono distrazioni di sorta.

Lo studio è per ogni suo partecipante come la vanga per il contadino; come l’adulto deve lavorare, il bambino/ragazzo deve studiare. Almeno fino a che non deciderà d’essere pronto per il lavoro. E magari    deve anche lavorare, per aiutare la famiglia…

E non si studia  per il voto, perchè qui i voti non esistono. Esiste  il capire, il saper fare, il progettare, l’ingegnarsi…

Lo studio è una cosa assolutamente seria e faticosa, e don Lorenzo  lo sa.

Ma grazie ad esso  i giovani formati ed educati  alla vita  saranno uomini  adulti capaci d’affrontare ogni genere di difficoltà, capaci di scegliere, capaci di conoscere, evolvere  e comprendere.

Questo è il fascino di questo maestro mai tramontato, un insegnante  che non pensa a bocciare  nessuno, ma che pensa a salvare tutti, a dare a tutti la propria possibilità.

BARBIANA COME SCUOLA DELL’AUTONOMIA (aveva il suo regolamento) , DELLA COOPERAZIONE (i più grandi devono insegnare ai più piccoli e si studiano i metodi di scuola utilizzati dagli altri paesi),  DELLA FLESSIBILITA’ ( ci sono programmi plurimi, personalizzati e  contestualizzati) E DEL TALENTO ( occorre portare ognuno alla realizzazione personale e sociale)

Ma non sono forse le  caratteristiche  che la scuola dello Stato  cerca di perseguire ancora oggi più di ieri,  come  mete e propositi di non facile realizzazione?

Domanda  legittima:  come può in insegnante che si riconosce   in questo modello, stare bene e trovare il proprio posto nella scuola reale?

Le tre emme della mia didattica

Insegno ispirandomi nel mio piccolo a tre  grandi  maestri del recente passato. Li chiamo le mie tre emme, emme come Montessori, come Milani e come Maieutica.

I corsi di formazione continua, moderni e supertecnologici,   non sono stati in grado di sostituirli.  Questi   mi rendono   informata e formata,  ma quelli   danno il senso e tracciano la via  del mio vagabondare lavorativo.

Ho annoverato l’antico  Socrate  tra i  pedagogisti recentemente passati, come se fosse contemporaneo degli altri due studiosi ed educatori; e non è stato un lapsus o una svista; Socrate è assolutamente senza tempo.

Ecco quindi un brano classico di insegnamento maieutico, giusto per darne una rispolverata e  nell’attesa di potere quanto prima riportare i miei…

Chiese il maestro    ai suoi scolari: “Voi ragazzi,  non avete mai confuso  il vostro compagno Paolo  con questa tavola o con questo albero? Giusto?”

“O no…”

“Perchè?”

“Perchè  questa tavola  è inanimata  e insensibile;   invece Paolo vive e sente!”

“Bene,  se voi battete la tavola  non  sente nulla e voi non le fate del male;  ma avete voi diritto di distruggerla?”

“No,  si distruggerebbe   la cosa altrui”  “

“Che cosa dunque rispettate  nella tavola?”  il legno inanimato e insensibile, ovvero la proprietà di colui cui essa appartiene?”

“La proprietà di colui cui essa appartiene”

“Avete voi il diritto di battere Paolo?”

“No, perché gli faremmo male e patirebbe”

“Che cosa rispettate in lui?, la proprietà di un altro o Paolo stesso?”

“Paolo stesso”

“Voi non potete dunque    né batterlo, né rinchiuderlo, né privarlo di cibo?”

“No, i carabinieri ci arresterebbero”

“Ah ,la paura del carabiniere…ma è solo per questo che non fareste del male a Paolo?”

“No,  signore, perché noi amiamo Paolo  e non vogliamo farlo soffrire,  perché non ne abbiamo il diritto”

“ Credete  dunque  che bisogna  rispettare  Paolo  nella vita  e nella sua sensibilità, perché la vita e la sensibilità  sono da rispettare?”

“Sì, signore”

“Vi è dunque solo questo da rispettare in Paolo? Esaminiamo,  cercate bene”

“I suoi libri, il suo abito, la sua cartella, la colazione che vi è dentro…”

“ Sia,  che volete dire?”

“Noi non possiamo stracciare i suoi libri, macchiare il suo abito, distruggere la sua cartella, mangiare la sua colazione”

“E perché?”

“Perché queste cose sono sue e non è permesso prendere le cose altrui”

“Come si chiama l’atto che proibisce di prendere le cose altrui?”

“Furto”

“ Perché  il furto è proibito?”

“Perché si  va in prigione”

“Sempre la paura del carabiniere….Ma  è soprattutto per questo che non si può rubare?”

“No   signore, perché la roba altrui deve essere rispettata, come la persona altrui”

“Benissimo,  la proprietà è il prolungamento della persona umana e si deve rispettare come quella,   ma è qui tutto?  Non vi è altro da rispettare in Paolo che il corpo, i libri e i quaderni? Non vedete altra cosa?  Non  trovate più nulla?…vi metterò sulla via io: Paolo  è uno   scolaro studioso,  un compagno franco e servizievole; voi tutti lo amate come si merita.  Come si chiama  la stima che noi abbiamo per lui? La buona opinione che noi abbiamo di lui?”

“L’onore,   la reputazione…”

“Orbene, questo onore, questa reputazione  Paolo si acquistò con la buona condotta e i buoni costumi.  Sono cose che gli appartengono  “

“Sì signore, noi non abbiamo il diritto di rubargliele”

“Benissimo,  ma come si chiama questo furto, cioè il furto dell’onore? E prima di tutto, come si può rubarglieli?”  sono forse essi che si possono  prendere  e mettere  in tasca? “

“No, ma si può parlare male di lui”

“Come?”

“Si può dire che egli ha fatto del male a un compagno…che ha rubato delle mele nel vicino frutteto…che ha sparlato di un altro…”

“Sia,  ma come così parlando voi gli rubereste  l’onore e la reputazione?”

“Signore, non gli si crederà più, si avrà cattiva opinione di lui,  si batterà, rimprovererà ,  e si lascerà in disparte…”

“Dunque, se voi dite male di Paolo, allorchè questo male è falso,  gli farete piacere?”

“No, signore , gli si recherà dolore, gli si farà torto,  il che sarebbe assai brutto e cattivo”

“Sì, miei ragazzi, questa menzogna con l’intenzione di nuocere sarebbe assai brutta e cattiva e si chiama calunnia.   Io vi spigherò più tardi  che si chiama maldicenza,  il male che si dice di una persona,  quando questo male è vero,  e vi mostrerò le funeste conseguenze della calunnia e della maldicenza.

Riassumiamo dunque quel che dicemmo: Paolo  è un essere vivente e sensibile.  Non dobbiamo procurargli  sofferenze,  né derubarlo,  né calunniarlo; dobbiamo rispettarlo.    Si chiamano diritti queste cose rispettabili che sono in Paolo e lo rendono una persona morale”  L’obbligazione  che  noi  abbiamo  di rispettare  questi diritti si chiama dovere.  Si chiama  poi giustizia  l’obbligo o il dovere  di rispettare  i diritti altrui.  Giustizia deriva  da due parole  latine  (  in iure stare  )   che significano:  “mantenersi nel diritto”.

I doveri  di giustizia  da noi  numerati  si riassumono così: Non  ferire…non far soffrire…non rubare…non calunniare…”  Riflettete alle parole  che dite sempre:  “Non”    con  un verbo infinito  imperativo…che significa questo?…”

“Un  obbligo, un comando…un divieto”

“Via, spiegate”

“L’obbligo del rispetto, il comando  di rispettare  i diritti…il divieto di rubare…”

“In che cosa dunque si riassumono essi?  Nel non fare del male

Brano tratto    da   “L’autoeducazione”  di Maria Montessori  Edizioni  Garzanti

 

Il cuore

 

 

 

E’ il sole che ci scalda

quello che non tramonta mai

perchè  sappiamo tornerà a risorgere

che ci tiene vivi…

E’  l’acqua  che ci nutre

quella che riteniamo un bene naturale

ed inestinguibile

mentre invece va protetta

come noi stessi

che ci conserva  sani

E’ la terra dura e solida

sulla quale  costruiamo  le nostre case

dove ci ripariamo dai venti e dalle piogge

ma non dai nemici

che ci mantiene

E’  l’aria  che respiriamo

che permette  il buon funzionamento di tutti i nostri

ammennicoli vari

qualcuno più grande qualcuno più piccolo

che ci mantiene  funzionanti

Ma alla fine è  solo  il nostro cuore

che batte

e la nostra capacità d’esercitarlo bene

che ci fa uomini

 

 

Caro Gesù…

Questo articolo è stato scritto da Elfo Bruno. L’ho letto per caso, mi  è piaciuto, l’ho trovato congeniale a qualche mia recente riflessione. Così lo ripropongo qui, e faccio i miei auguri  di una vita  ben riuscita ad Elfo… (qui il suo articolo originale)

 

Caro Gesù, diciamo che oggi per te è un anniversario importante. Quasi duemila anni fa, infatti, cominciava il tuo calvario: ti avrebbero messo in croce, avresti assolto tutti i peccati del mondo e, secondo il mito, sarebbe cominciata la nuova era, la fine dei tempi, l’inizio del regno di Dio.

E invece.

Venti secoli dopo il mondo non è migliore rispetto a quello che avevi immaginato. La società non crede più in troppe divinità, ma in una sola. Il potere. E questo ci ha reso, tutti e tutte, molto meno liberi di un tempo. Poi qualcuno, quel potere, lo chiama Dio, qualcun altro denaro, altri ancora conciliano egregiamente tutte e tre le cose – hai presente il concetto di trinità, no? – ma la sostanza non cambia.

Il popolo che preferì Barabba a te è sempre lo stesso. D’altronde, discendiamo dai nostri antenati. Non si è ben capito perché dovremmo essere migliori di chi ci ha preceduto, soprattutto quando la psicoanalisi ci insegna che riproduciamo, in modo più o meno conforme, i modelli che ci hanno educato. Ognuno è ciò che mangia, se vogliamo usare una metafora.

Certo, qualcosa è cambiato: non schiavizziamo più i neri in tuo nome. Le donne possono sedere a consesso con gli uomini nonostante i divieti di san Paolo. Pensa, se studiano e cercano di essere libere pensatrici non le si brucia nemmeno! Ma tanto per non perdere il vizio, siamo ancora razzisti – dal Ku Klux Klan alla Lega Nord, sai quanto orrore, caro Gesù? – siamo sessisti (hai mai guardato un reality o la pubblicità delle mozzarelle?) e, soprattutto, della Bibbiaabbiamo dimenticato molte cose, a cominciare dal tuo invito alla povertà più pura – sei mai stato in Vaticano? – però Sodoma e Gomorra ce le teniamo ben strette e allora ce la prendiamo contro al frocio di turno. Di recente, nel Regno dei Cieli, avrai conosciuto persone come Matthew Shepard o Daniel Zamudio. Uccisi, entrambi, perché gay.

Ma se vogliamo, queste sono bazzecole, almeno di fronte ad altre chicche dell’umanità, come le guerre, la distruzione sistematica dell’ambiente in cui viviamo, il costante calpestare i diritti di miliardi di uomini e donne, con le dittature, il mercato, l’indifferenza…

Come facciamo a vivere, di fronte a tutto questo? Basta poco. Nel mio paese, ad esempio, è sufficiente appendere nelle scuole e negli uffici pubblici una statuetta di te, morente – dimmi tu se questo non è cattivo gusto – fare la comunione una volta l’anno e continuare a fottersene bellamente di tutto il resto. La coscienza ne vien fuori integra e pulita, almeno all’apparenza. Ma l’anima?

Per questo mi chiedo, io che non credo, ma che ho abbastanza stima di te da pensare che, anche qualora fossi solo un mito e non un personaggio realmente esistito, hai detto cose abbastanza fighe e rivoluzionarie per i tempi che hai vissuto, se ne è valsa la pena. Se ogni chiodo e ogni tortura che ti hanno attraversato il corpo non siano state un prezzo troppo oneroso, di fronte all’ipocrisia di chi oggi protegge criminali pedofili, va a braccetto con le dittature, vuol tenerci attaccati contro voglia a un respiratore e ci impedisce di amare al meglio delle nostre facoltà. E non sto parlando solo del tuo fan club. Se guardi bene, ho già scomodato tirannidi e distruzione di uomini e donne, animali, pianeti interi.

Era questo che volevi, quando hai deciso di affrontare il supplizio di una croce che ci assomiglia sempre di più? Perché a volte ho l’impressione di assomigliarti maggiormente io, gay, “peccatore” (se mai tale parola dovesse avere un significato qualsiasi), imperfettissimo e ferito dalle circostanze e da un’incontenibile bisogno di assoluto e di verità, che tutti coloro che dicono di parlare a nome tuo.

E allora, mi chiedo ancora: ma davvero sei morto e risorto e lasciare tutto in mano a certa gente, senza intrometterti più, senza dare un segno di disapprovazione, senza far capire che davvero da duemila anni a questa parte hanno sbagliato ogni cosa? No, perché davvero, io ci crederei pure in quella storia dell’amore e del suo abbraccio ad ogni creatura che c’è. Ma il tuo silenzio, in tutto questo tempo, e scusami se te lo dico, mi sa davvero di una prova troppo evidente per convincermi del fatto che forse sei una bella favola: dolce, tragica, senza speranza. E nulla più. Perché è questo il sapore che alla fine resta in bocca.

Per cui, anche se a me non piace, perché mi piace avere sempre ragione, se volessi smentirmi, ecco… per una volta non mi offenderei. Lo prometto. E ti prego di credermi.

Elfo Bruno

FACCE PULITE


La faccia pulita della politica

Degli altri non c’è certezza…

E poi ci sono le altre facce pulite, aria pulita pulita pulita  intorno noi…qualcuno è morto,  anche in maniera tragica, ma hanno lasciato le loro eredità…e poi c’è la gente comune…

 

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Miniatura

 

 

La Rinascita della Calabria di Alvaro        

 

 

Sese, dallo Xenon al seguito di Sant'Efisio

 

 

 

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COLOMBE AQUILE E DRAGONI

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Lo stato attuale del maestro. Prima parte

     La scuola che funziona

Insegnare è un lavoro meraviglioso e prezioso, l’importante è che non crei ansia e che non  dia noia a chi lo esercita.

Se queste due condizioni d’animo mancano,  sei già sulla buona strada  della possibile realizzazione.

La prima dote che viene richiesta all’insegnante (qui mi riferisco nello specifico al maestro di scuola primaria)   è di essere un buon osservatore; l’insegnamento richiede la capacità  di comprendere quel che prioritariamente  circonda il maestro, ossia i propri alunni, ognuno con la propria caratteristica.

La seconda   cosa che mi è venuta invece  da riflettere, facendo questo mestiere,  è stato di  fare paragoni  tra i diversi maestri e maestre  incontrate/i  sul campo.

Ogni insegnante ha il suo stile o quantomeno il suo modo di gestire il gruppo classe e i conflitti di gruppo, come le problematiche dei singoli; tra i generi puri  c’è l’autoritaria, che vuole controllare tutto e tutti, sempre perfetta, sempre  integerrima, che non butta via  (o quanto meno si impegna seriamente in questo proposito)  neanche un minuto  della sua giornata scolastica;  c’è la materna  che vede nei bambini i propri figli o qualcosa del genere, e vi si dedica con  amor prodigo, senza  eccessiva  amministrazione  tecnica  o metodologica, per l’appunto,  sentendosi più chiamata  ad una vocazione   che ad un normale mestiere;  c’è la superficiale, chi si sente l’amicona dei bambini,   che si mette quasi sullo stesso livello dei discenti,  tranne poi ricordarsi che è e rimane  l’insegnante  solo  quando la situazione  sfugge di mano; questo tipo di docente usa spesso un linguaggio non idoneo al contesto, con la palese conseguenza che gli alunni, già di per sé privi di remore e di freni,   non apprendono come dovrebbero  le regole e la disciplina,  nemmeno quella indispensabile  per  potere condurre in maniera sufficiente  i compiti  scolastici.

Quindi esistono tutte le varie mescolanze; chi è un po’ materna ma non troppo; chi  tende ad essere  confidenziale  ma non sempre;  chi si mantiene  sul distaccato  ma non come imperativo categorico.

Un aspetto che devo ancora approfondire  è il mondo  dietro le quinte dei genitori.  Credo  che spesso, una volta conosciute le famiglie dei nostri vivaci  ragazzi,  si possa capire perché certi alunni  siano fatti in una certa maniera…

Qualunque sia  il metodo  o il non metodo  che un maestro/a   decide di utilizzare, a farne le conseguenze sarà sempre e comunque il gruppo classe ed i suoi singoli.

Gli alunni sono di per sé  un variegato mondo  di attitudini, capacità, caratteri, paure  e mancanze;  ci vogliono dei mesi per arrivare  a conoscerli, ad approcciarli;    poi ci vogliono dei mesi  per costruire l’equilibrio della classe, poi quando finalmente si arriva  a potere lavorare quasi  bene insieme, arriva la fine dell’anno scolastico, e già sappiamo  che nell’anno nuovo, per chi è precario,  non ci sarà la continuità didattica  e tutto il tanto o poco seminato  verrà perduto (se non completamente almeno in parte).

Se ne lamentano i genitori, se ne lamentano forse gli alunni, ma di certo se ne lamentano moltissimo gli insegnanti, che si trovano  compromessa la propria  valorizzazione professionale.

Non parliamo poi  della possibilità di fare aggiornamento.

Se c’è un ambito dove la preparazione  continua è indispensabile è proprio l’ambito scuola. Eppure il docente, quello incontrato  da me nei corridoi e nelle aule  delle scuole primarie, non ha certamente  la possibilità ossia il tempo,  per aggiornarsi, se non  per un millesimo delle sue reali esigenze.

Vietato chiedere permessi che non siano tra quelli annoverabili nel settore delle  priorità  assolute (malattie proprie o dei propri familiari,  tanto per intenderci) e senz’altro  a ben guardare di questo genere di  assenze se ne preferirebbe farne a meno.

Quello che sei e che hai appreso  te lo devi gestire dunque da solo, nell’orario extra lavorativo; tutto a proprio carico, anche se non  tutto a proprio interesse, anzi;  è solo l’interesse della scuola e della sua capacità  realizzatrice  a farne le eventuali  spese come  a beneficiarne dei crediti.

Nel domandarmi  che figura di maestra intenda  perseguire,  la risposta si fa complessa.

Talmente complessa,   che devo acquisire elementi  aggiuntivi e meglio dettagliati  per potere darmi una adeguata  risposta. Il fatto è che  non si può tanto scegliere a priori  di essere un genere piuttosto che un altro, dipende dai singoli alunni il dovere approcciarli   secondo una tecnica piuttosto che secondo un’altra…

Si cominci piuttosto   a dividere le varie discipline (area linguistica  ed espressiva, area motoria, area matematico-scientifica, area storia- geografia, area lingua straniera, area sostegno,  area alternativa); poi si cominci ad individuare i target  di  riferimento (alunni normali- alunni con sostegno leggero- alunni con sostegno grave- alunni stranieri).

Fatta  questa  cernita  di massima,  la tuttologa maestra deve sapersi improvvisare come un buon prestigiatore dentro queste varie  necessità  che spaziano di fatto e di contingenza  dalla A   alla Zeta.

E di fortuna ne deve avere almeno un poco…credetemi.

E nonostante tutte queste incognite,  insegnare rimane un lavoro estremamente scientifico, storico  e primario per il futuro dello stato civile di un paese,  anche se purtroppo   la società civile non ne ha tenuto  negli ultimi decenni  affatto conto.

Sulla  diatriba  di  quanto la scuola sia arretrata  in un mondo ormai tecnologico ed informatizzato, è assolutamente vero,  anche se io preferisco conservarmi  le mie riserve;  è vero che la scuola è ancora notevolmente  arretrata, ma sono i bambini ed i ragazzi stessi  che si auto-organizzano in questo senso, così che  i docenti possono fare facilmente  leva su questo loro naturale interesse, volontà permettendo. E la scuola si sta organizzando in questo senso. Nelle scuole mediamente attrezzate ci sono le sale internet, c’è l’ora di informatica, stanno divulgando (anche se con il conta gocce)  le lavagne interattive multimediali, ci sono i progetti  ministeriali  (vedasi i  vari clil o e-twinning…) che  senza questo mezzo  non potrebbero avere né sostanza nè l’efficacia che riescono a mietere, ci sono le auli virtuali facilmente improvvisabili   con una normale conoscenza  tecnica, ci sono i gruppi classe  interattivi,  ci sono le piattaforme formative come  Indire e le sue evoluzioni, ci sono i più vari programmi/siti  di  operazione  intermediale  che facilitano  l’apprendimento e lo scambio di ogni materia, di ogni competenza e di ogni campo (esempio:  linkedin,  skype, twitter, anobij,    google con tutte le sue varie applicazioni, mimio, massenger,  youtube,  slide share, picasa,   …),   ci sono le mail istituzionali e personali  per rimanere sempre in contatto in tempo reale,  ci sono i social network specializzati in materia didattica, (e non solo il più noto Facebook  di cui ricordo l’utilità di teachthepeople) ), uno tra i maggiori  potrebbe essere LA SCUOLA CHE FUNZIONA    (di cui io stessa faccio parte), ossia il  wiki  dedicato  completamente al mondo insegnante;   si sta formando in crescita una nuova generazione di docenti che lavorano  sistematicamente con la rete (vedasi la nascita dei vari blog didattici e dei vari siti  ad esclusivo utilizzo didattico);  vuoi per personale attitudine, e vuoi per avere compreso le enormi potenzialità di questo mezzo di comunicazione e di lavoro.

Se non ci fosse stato il web oggi la scuola, con quello che ha operato la politica, sarebbe stata al collasso. Ed io non sarei tornata all’insegnamento, non in un mondo che respira senza  il battito di internet, imprigionato dentro schemi antiquati, burocrati ed ipocriti.

Il web,  a esclusione forse di chi vive  per scelta  ritirato dal mondo, è  di fatto  diventato indispensabile per tutti; per i formatori che così  fanno e si fanno  formazione;  per gli alunni che vanno in rete per comunicare, per costruire  le loro relazioni sociali, per studio, per gioco, per curiosità, per identificarsi con il proprio   gruppo e per molto molto  altro ancora; per gli stessi genitori, se vogliono rimanere al passo con i tempi e se vogliono comprendere le loro stesse  figliolanze.

Il fatto stesso che i genitori cominciano a diventare tali in una età abbastanza tarda, restando di per sè  giovani  nel senso di aperti  al  cambiamento  anche una volta fossero diventati  educatori di figli, essendo cresciuti loro stessi  come  fruitori e consumatori di rete  abituali, mescola le carte in gioco; ci troviamo di fronte una nuova generazione di madri e di padri  che realmente  detengono   la possibilità  di parlare  una lingua   abbastanza  simile a quella dei figli in crescita.

C’è il rovescio della medaglia, cioè il rischio d’avere genitori sostanzialmente adolescenziali,  con  scarsa attitudine al ruolo di educatori.

Nonostante i paradossi  di questi intrecci e di queste evoluzioni,   la risorsa tecnologica    rimane  una porta senz’altro aperta,  anzi spalancata,  e facilmente  spendibile all’interno del proprio metodo o, se si preferisce,  delle proprie tecniche  di insegnamento.

Non sto affatto facendo l’elogio  gratuito del web, conosco perfettamente  i rischi insidiosi che si celano dentro questo strumento (adescamento, sballamento, perdita del contatto reale, assenza di capacità critica, superficialismo, bullismo di rete…), ma proprio per questo occorre educare i minori al corretto e prudenziale utilizzo  di questo mezzo che di fatto respirano dall’utilizzo del primo iphone o ipod o ipad…

D’altro canto  a me interessa bensì   diffondere   tra i maestri stessi   gli indiscussi    benefici   di  questa tecnologia: si può  produrre di più e meglio, si può condividere, si può trasmettere, si possono incentivare le collaborazioni, si può interagire, si può coinvolgere con immediatezza, si scoprono sempre risorse nuove, ci si può  rendere  trasparenti e raggiungibili, si creano librerie multimediali, si può mettere  tutto in condivisione, ci si confronta in tempo reale, ci si scambiano idee, suggerimenti, problemi e competenze,  si riescono a trovare linguaggi comuni e punti di incontro  tra le diverse generazioni, e la partecipazione di tanti ad una stessa questione  può portare ad un prodotto finale migliore  di quello che sarebbe costruibile  con le  risorse  di pochi.

Ci sono studi universitari  in proposito; l’uso quotidiano e capillare del web  rappresenta la più grande rivoluzione  di massa  dopo il divorzio,  l’aborto e l’uso della pillola.

Lo stesso mondo amministrativo e burocratico  oggi senza la rete  verrebbe paralizzato come inghiottito da un black out senza via di scampo.

Per quasi  concludere questa prima  analisi  sul mondo didattico, volevo spendere due parole anche sulla capacità dei docenti stessi di fare squadra, di fare team, di sapere lavorare in gruppo dentro la scuola stessa, cioè dentro lo specifico ambito lavorativo;  laddove questa capacità esiste e viene incoraggiata ed alimentata (situazione ideale),  i risultati percepibili non tardano a venire, il contesto generale  se ne ritrova   enormemente avvantaggiato; laddove questa capacità esiste solo in parte o  viene addirittura scoraggiata con comportamenti di alcuni colleghi assolutamente inadeguati  (situazione reale),   allora  si lavora  con possibili intralci ed  equivoci,  con delle difficoltà  che sinceramente gli insegnanti  dovrebbero imparare ad eliminare e a superare,  magari proprio con specifici e mirati corsi di formazione…

L’insegnante, con la penuria di personale docente che c’è  sul campo, non si può davvero permettere di creare malintesi e di mettersi in una scorretta competizione  con colui che rappresenta di fatto  una risorsa preziosa  di compensazione e di bilanciamento.

Chi usa l’intelligenza ed il buon senso lo sa. Chi conosce il valore del rispetto che occorre dare ad ogni singolo collega,  lo sa.

Infine  c’è  la  scoperta   di quanto  ogni  maestro/a  riesce  a costruire  anche in tempi relativamente veloci proprio  grazie al lavoro di altri maestri che sono passati dallo  stesso tracciato prima di lui;  mai lavoro si  costituisce  tanto di squadra quanto   quello insegnante!

Non m’interessa il banale  disfattismo   di chi si lamenta sempre e comunque  di tutto, anche ed a ragione  delle ultime  riforme false che di fatto, per una mera esigenza di bilancio, anziché migliorare hanno solo distrutto.

Quando si entra in classe tutto il marcio che non va viene messo momentaneamente  da parte; nell’aula rimane vigente  solo  il patto formativo che  il maestro ha giurato (vedasi il GIURAMENTO) a se stesso nella sua etica del lavoro;  fino a che  l’insegnante  avrà  fiducia  in questo progetto   umano, personale  e  sociale,  ogni genere di secondaria difficoltà potrà venire superata.

Potrà essere solo  una speciale  difficoltà primaria  e categorica a mettere in forse questo suo dinamismo e questo suo irremovibile proposito.

Venerdì di passione

Nella chiesa semi buia il grande crocefisso centrale è stato tolto,  in segno di assenza, di vuoto, di smarrimento, di infermità.

E’ come  se il cielo  volesse urlare agli astanti “Mio Dio, è sparito il sole, la nostra  certezza, la nostra fonte di calore,  ed adesso come faremo? Cosa ne sarà di noi?”

Mi dirigo  verso le piccole seggiole allineate di fronte all’icona santissima  della Passione.

C’è già qualche donna in preghiera. Dietro altri angoli della grande  stanza, nel chiaro scuro delle luci, si intravedono  altri fedeli;  uomini, anziani, qualche bambino accompagnato dai nonni…

Io mi raccolgo: sono qui per ritrovare il mio Gesù, per sentire il mio essere  cristiano  in questo giorno che è il più drammatico della liturgia cattolica e protestante;  oggi siamo tutti orfani, siamo tutti  uomini senza patria, senza presente e senza domani.

Guardo allora  la gigantografica   figura  che mi  viene imposta  con tutta la sua  forza  rappresentativa; il quadro è in sostanza il volto del Cristo morto, abbracciato dallo sguardo e dal volto stesso della madre Vergine Maria.

Sono talmente in fusione amorosa e contemplativa   da non poter dirsi dove inizia  il dolore senza fine  della madre e dove sia finito   il dolore  senza  possibilità  di  comprensione   del figlio.

Del corpo   martirizzato  si vedono solo le spalle nude, non particolarmente martoriate a dire il vero.

Quest’ iconografia  non  mette in scena  il vero strazio fisico; la pelle del salvatore è rimasta quasi immacolata, mentre noi tutti abbiamo indelebili   nella memoria  le vergate e le ferite sanguinolente di quel Messia   gettato sul calvario.

Gli occhi di Maria sono socchiusi, come a volersi spegnere; la sua bocca è contrita,  come a non aver  più  parole  da pronunciare; la sua mano dalle lunghe dita affusolate ed esili accarezza i capelli sciolti e morbidi del  Cristo,  come a volerlo consolare della grande prova messa a suo carico, come a volerlo  compensare delle lunghe ore di solitudine ed abbandono   appena provate e vissute con incredibile ferocia.

Gli occhi di  nostro Signore sono chiusi;  lui è morto, è assolutamente morto, ha lasciato la terra dei vivi piangenti, e non sente più le nostre lacrime, non vede più i nostri volti smarriti  ed increduli, agognanti  ed ammutoliti.

Intorno si intravedono altre figure appena  accennate; forse sono le donne devote  che mai si allontanavano  da Maria, forse c’è qualche angelo che si mescola nella piccola folla,  forse a distanza si potrebbe intravedere anche qualche soldato.

Oggi è il giorno più infelice del mondo.

E’ morto il  martire  benedetto  venuto per la nostra salvezza.

E se non fosse che poi già sappiamo  che tra poco verrà la domenica della resurrezione,  si potrebbe immaginare  che a ragione  forse qualcuno oggi potrebbe avere  l’idea   di suicidarsi…

Ma invece conosciamo   la storia, ci è stato detto da duemila anni a questa parte   che Gesù il terzo giorno dalla  la fine  uscirà dal sepolcro del buio per trionfare  nella  luce del padre, sappiamo che di qui a poco scenderà su tutti i noi l’ala protettrice dello spirito  evangelico.

La religione cristiana è tutta qui; è la consegna del paradiso nelle mani provvide della vergine Maria e degli apostoli suoi compagni,  che hanno   avuto la ventura di ascoltare  e condividere le parole dell’amore  benedetto, questo nostro  amore sepolto, questo nostro amore  disconosciuto.

Noi uomini di oggi non abbiamo conosciuto di persona  Gesù; nemmeno quelli di ieri;  nemmeno  quelli dell’altro ieri… Siamo tutti annoverabili nel gruppo degli sfigati;  di lui semplicemente  sappiamo solo  tutto, sappiamo talmente tutto  che   continuiamo  a definirci cristiani  anche soltanto andando in chiesa in questo santo giorno di Passione…

A volte per diversi   non  serve  nemmeno in questo giorno…

Siamo così  diventati  cristiani nel dna, nell’aria che respiriamo. Non abbiamo più  segni  quotidiani che ci ricordano d’esserlo.  Quelli esibiti sono solo parte della moda, delle tendenze  più o meno effimere e passeggere. Il non poterci dimenticare di Gesù  è forse dipeso dalla moltitudine di martiri  che la stessa  infelice  chiesa  ha saputo  mietere nei secoli…e  siamo cristiani nonostante  il male  che abbiamo saputo dimostrare di perseguire…

E   non vogliamo diventare altro. Non vogliamo farci musulmani. Non vogliamo farci ebrei (e nemmeno gli ebrei ci vorrebbero tali).  Non vogliamo farci atei. Qualcuno di noi ogni tanto si fa buddista o qualcos’altro di simile,  ma più per  sensibilità filosofiche che per credi ultraterreni e trascendenti.

Rimane il fatto  che   la  stragrande maggioranza si conserva   nel suo intimo legata a questa parola, a questa espressione: “Io sono un cristiano”

Ma cosa vuol dire realmente dichiararsi tali?

Semplicemente  saperci schierare, nel momento del dunque,   dalla parte degli ultimi.

La domenica di Pasqua sarà la domenica della rinascita, del miracolo, dell’acqua putrida che si farà sorgiva, dei malati  cronici  che  guariranno  dalle loro  agonie, degli sciagurati incalliti che  diverranno  docili,  delle madri  distrutte  che  torneranno a cantare ,  dei poveri senza nulla che finalmente avranno tutto,  dei ricchi  sprezzanti e spregevoli  che si metteranno a piangere,   degli ignoranti  e senza Dio  che  incontreranno  la  verità, dei bugiardi e saccenti    che  diverranno muti…

Ecco perché io amo  questa religione, io amo questa persona,  e solo per una ragione simile  io posso comprendere    ed amare   tutte le altre fedi.

gaberianamente

and so on…

IL SIG. ENNE

Molti  uomini semplici  pensano    che basta comportarsi bene per avere in cambio cose buone; pensano  che basta essere onesti per non avere nulla da temere dalla vita e dalla legge; pensano   che come ci dicevano i nostri vecchi,  “se male non fai, paura non avrai…”.

La  ben triste   storia di   Ambrogio Mauri  purtroppo smentisce questa  santa solidità, questa  solo  prudenziale   ovvietà. E se solo si trattasse della sola storia o di una vicenda isolata e sporadica,  ci si potrebbe comunque rallegrare, ma   purtroppo   non è la sola, non si tratta  di  un caso isolato e sporadico.

I numerosi suicidi degli ultimi mesi, ma potremmo dire degli ultimi anni, causati da i dissesti economici   e da corruzioni  politiche ed amministrative  che hanno messo  e che mettono in ginocchio  piccole e medie  imprese   produttrici  e preziose per il territorio e  per il paese,  ci raccontano esattamente il contrario.

La vicenda Mauri è stata  a tempo debito  egregiamente  celebrata dalla bravissima  Milena Gabanelli   che  quando c’è  da smuovere  le coscienze  non fallisce mai un colpo.

Restando nel campo delle ingiustizie  commesse dallo Stato,  mi viene puntualmente  a memoria  la più celebre  strage  che ha mandato a morire  alcuni  dei nostri migliori  figli,  Falcone e Borsellino;  avrebbero dovuto essere protetti e difesi, ritenuti preziosi come la vita stessa  della repubblica  e della democrazia,  e invece sono stati lasciati soli, orrendamente  condannati alla morte  perchè ritenuti scomodi.

Lo stesso è accaduto  al buon cittadino sopra citato, potremmo chiamarlo il sig.  enne, enne come nessuno,   che voleva solo fare il proprio dovere, che voleva solo migliorare il tessuto economico  ed ambientale, che voleva solo mettere al servizio della  collettività il proprio   spirito  creativo e geniale,  ostinatamente  fiducioso, contro ogni  logica di  violenza e di  prevaricazione,   nella  forza morale  della  legge  sana  e  dello Stato giusto.

Ma la legge si è rivelata insana, costruita ad hoc per stritolare ed indurre al suicidio, e se non al suicidio,  allo sfinimento e all’abbandono  di ogni speranza; così  il  sistema corrotto  ha prodotto la sua vittima di turno.

Lo   Stato si è rivelato  ingiusto,  non volendo difendere  i suoi uomini di valore, non sapendo  proteggere gli onesti e i semplici,  semplici  di spirito  e non certo  di  ragioni, perchè è la Ragione a stare   dalla loro parte, perchè è la Verità  a  splendere  sui loro corpi morti.

Non vorrei seminare sconforto   là dove di certo  di esso  non ne abbiamo bisogno,  ma è così;  la solitudine appartiene  a chi non si mescola  con  la massa  becera  e grondante  di  esibizionismi e pretese,  una  massa  ordinaria, scontata,  prevedibile e manovrabile, una  massa  che  è  quello che noi sconciatamente  siamo o dimostriamo  di condividere.

Certo che tra la capacità  o   l’ esasperazione  di compiere gesti di protesta  come quelli di altri  nostri  concittadini  che si sono dati fuoco  per manifestare   contro un sistema  fiscale e bancario  incivile ed indegno di un paese  evoluto,   ed il lasciarsi  banalmente  corrompere dal ritornello  “Così fan tutti e dunque solo il furbo  vince”,  ci può stare un’ immaginabile e salvifica via di mezzo.

Ci vorrebbero dieci cento mille  Ambrogio Mauri,  in tutte le città, in tutti i comuni, in tutti i paesi, in ogni rione, in ogni cortile, in ogni  famiglia…  Sarebbe più bello guardarsi in faccia  la mattina, e l’aria  sarebbe meno irrespirabile.

Prima  di spararsi un colpo al cuore perchè stanco di lottare per nulla, il sig. enne  scrisse queste parole alla sua famiglia e alla nostra  società:

“Auguro, a chi continua a resistere, di avere maggiore fortuna di me. Potrà sembrare un atto di egoismo. Non è così, sono proprio stufo di lottare ogni giorno contro la stupidità e la malafede e non capisco se è incompetenza. Come tanti, ho cercato di fare il mio dovere, di uomo, di imprenditore. Sempre. Abituato ad essere uno che guardava avanti con fiducia, ora, dopo tangentopoli tutto è tornato come prima. Più raffinati. Forse chissà, saranno anche onesti. C’è chi rinuncia alla vita perché non riesce a lavorare per troppa trasparenza. Il mio vuole essere un gesto estremo della protesta di chi si sente isolato dalla così detta società Civile. P.S. Se fosse possibile vorrei essere il primo sepolto nel nuovo cimitero per essere più vicino al luogo dove ho lavorato e sofferto molto”.