Una tragedia nazionale

  

 

Il crollo del ponte di Genova

43 morti accertati, un numero non definito di feriti, più di 30 famiglie distrutte, 600 e oltr sfollati, palazzi interi da buttare giù, un paese che non si sente più sicuro di viaggiare per le strade, e uno Stato messo sotto accusa.

Si vedranno gli sviluppi e la capacità della politica di dare risposte serie e risolutive.

Per ora c’è solo il lutto che tocca in modo straziante le vittime ed in modo impreciso e stordito, ma non per questo poco importante,  tutto un popolo….

 

le mani di Dio

Un maestro e il suo discepolo si trovarono a percorrere un deserto. A un certo punto, il maestro spiegò al discepolo che potevano sempre confidare in Dio, giacché Egli si occupa di tutto.
Quando scese la sera, decisero di accamparsi. Il maestro prese a montare la tenda e incaricò il discepolo di legare i cavalli a una roccia. Ma, mentre si avvicinava al luogo adatto, questi pensò: «Il maestro mi sta mettendo alla prova. Ha detto che Dio si occupa di tutto, ma poi mi ha chiesto di legare i cavalli. Intende scoprire se ho fiducia in Dio, oppure no».
Anziché legare i cavalli, recitò una lunga preghiera e affidò la loro custodia a Dio.
L’indomani, quando i due uomini si svegliarono, i cavalli erano scomparsi. Deluso, il discepolo andò a lamentarsi con il maestro. Gli disse che non aveva più fiducia in lui, giacché gli aveva mentito riguardo al fatto che Dio si occupava di tutto: non si era premurato di sorvegliare i cavalli.

«Stai sbagliando, – replicò il maestro. – In realtà, Dio avrebbe voluto occuparsi dei cavalli ma, in quel momento, doveva servirsi delle tue mani per legarli alla roccia».

Paulo Coelho, Le valchirie

ribloggato da Diapason 2.0

Un paese colpevole

Un paese che non si cura dei suoi cittadini

che ruba rubando al suo prossimo

che mente mentendo a se stesso

che tace  quando dovrebbe urlare

che giudica  quando dovrebbe cercare di capire

che assolve quando dovrebbe condannare senza mezzi termini

che  non offre lavoro ai suoi giovani

che non offre garanzie nemmeno sulle cose più sacre

che detiene i suoi detenuti come nemmeno gli animali andrebbero gestiti

che lascia soli quando dovrebbe fare quadrato

che si mercifica quando dovrebbe prendere le distanze

che insozza il nemico perchè viene facile

che convive allegramente con la corruzione

che scarica di prassi  le proprie  colpe addosso agli altri

che parla parla parla senza mai fare i fatti,

io lo chiamo

un   paese colpevole

Questo paese siamo noi.

Scrivere è insegnare

Per me scrivere è una forma di insegnamento.

Pensiamoci bene; la scuola è un mondo fatto di parole, di relazioni, di scambi, dove la parola scritta gioca un ruolo principe.

Questo segno scritto può diventare  qualcosa di più elaborato, di più complesso, di grafico, di uditivo, nel momento in cui  si trasforma in un disegno, in una immagine, in un video  o in un suono.

Se avessi potuto scegliere chi essere avrei preferito conoscere la musica,  diventare compositore, perché il suono è la forma di espressione collettiva più completa e diretta.

In seconda possibilità  avrei scelto di coltivare l’immagine,  perché attraverso l’occhio dopo l’udito  noi possiamo  comunicare le emozioni più profonde, comprese quelle che rimangono precluse alla parola.

Mi sono dovuta accontentare di potere approfondire l’uso della parola.

Così che sono solo una persona  che cerca di conoscere il linguaggio scritto.

A   scuola i nostri alunni li portiamo a visitar mostre, più raramente a sentire concerti (che invece li farebbe impazzire); talvolta ad assistere a spettacoli, soprattutto teatrali,  dove regna sovrana la parola parlata, sentita, ascoltata.

Il  teatro come ogni forma di spettacolo simile ( vedasi il cinema)  è l’incontro della parola scritta con la parola detta.

Fino a che noi le parole le scriviamo, escono dalla nostra testa per finire su un pezzo di qualcosa  che le porterà alla visione degli altri.

Uscite dalla nostra mente e volate via leggere come farfalle più o meno saettanti, di queste parole noi non siamo più  padroni.

Le abbiamo consegnate al tempo, allo spazio, spesso al vuoto.

A   volte invece  succede che le parole  scritte  mettano in movimento  qualcosa, per esempio altre parole, altre riflessioni, altre condizioni.

Quando questo accade la nostra  parola è diventata mezzo di insegnamento.

Certo, in un mondo dove siamo subissati da molteplici linguaggi, da molteplici contenuti,  è quasi pressoché difficile  incrociare quelle  espressioni verbali  che potrebbero   tornarci utili e positive.

A  volte non si è nemmeno in grado di riconoscerle, tanto si è frastornati  da contesti tra i più impensabili e  complicati.

Così che ci possono essere parole preziose che lasciamo cadere nel  nulla, in quel contenitore grande e grigio, senza forma e senza sostanza che chiamiamo appunto  il “vuoto”.

Un insegnante raggiunge il suo successo quando ha l’abilità ma anche la fortuna  di fare incrociare le sue parole, ossia la sua presenza, con il proprio interlocutore.

Questo accade non perché si è riusciti ad utilizzare un vocabolario speciale, non perché si è potuto  adottare una tecnologia  super dotata, ma perché si è riusciti a far congiungere  la necessità dell’alunno coinvolto con  la sollecitazione/contenuto  del docente  impegnato.

La partita più importante accade sul piano emotivo, affettivo, relazionale.

In questo preciso momento  il maestro e il suo scolaro si trasformano  in qualcosa di umanamente diverso;  non credo che si tratti di dire  che un insegnante è come un padre, un insegnante rimane un professionista, un educatore pagato per un lavoro preciso, una presenza autorevole che l’alunno  non può che guardare che con  un vago senso di dipendenza.

Ma anche un padre è qualcuno dal cui essere  il figlio dipende, solo che la paternità  non percepisce nessuno stipendio  per esercitarsi.

Per assurdo potremmo aggiungere che un padre è autorizzato a sbagliare, essendo che solo la capacità di un amore assoluto rende capaci di esercitare perfettamente questa funzione ( al cui compito l’atto del generare  chiama il padre alle sue  responsabilità), mentre un docente che viene pagato per essere tale, in caso di errore sarebbe  richiamabile  immediatamente  ai suoi doveri.

Di una vita generata si diventa responsabili fino alla raggiunta autonomia  di colui che si è generato; di una vita  educata  ci si  fa responsabili  fino  alla  effettiva trasmissione di   saperi/competenze  che ci si è preso l’incarico  di  insegnare.

Questo in linea di massima.